peregrinazioni lagunari o cronaca di un sabato di trentasei ore o storia di come siamo sbarcati alle Vignole

Questo racconto potrebbe essere benissimo una puntata di podcast, ma visto che non ne ho uno (ancora, chissà), e voglio trovare le giuste parole per dare questa storia a ognuno di voi, eccomi riapprodare qui.

Se fosse una puntata di podcast, so per certo che mi piacerebbe iniziare con questa canzone in sottofondo: https://open.spotify.com/track/2pM4Q4QqE7CtGmjfjbDLvE?si=gEoiUYqkSmyKkDAxnfWxgA&utm_source=copy-link e poi probabilmente esagererei e userei tutto l’album da cui è tratta… ma procediamo con ordine!

Solo due giorni fa, incredibile a dirsi, celebravo la vita con l’antico rituale che si tramanda di veneto in veneto secondo cui, ogni giorno, si dovrebbe salutare il sole con un’ombra (versione per chi studia a Venezia: stavo bevendo da Lele). Era il giorno di San Martino (perché questa storia è intrisa di tradizione e di feste in modi imprevedibili e vicini al mio cuore) e stavo già pensando al dolce del cavaliere che avrei diviso con la mia famiglia a cena. Era un doppio giorno di festa, perché in piazza San Marco avevano proclamato qualche centinaio di lauree e la città era gremita di famiglie e amici per fare, appunto, festa. Questo è il motivo principale per cui io e Gio ci siamo sedute dall’altra parte del canale rispetto al bacaro dove avevamo preso da bere, isolate dalla calca dei festeggiamenti.

Eravamo sedute sui quei gradini che scendono in acqua, che a Venezia sono tanto frequenti quanto quelli che vanno in cantina nelle altre città, e mangiavamo del formaggio eccetera. A un certo punto arriva un signore in barca e si mette a fotografare le scale su cui siamo sedute e in generale il livello dell’acqua del canale. Viene spinto in avanti dalla corrente e in un certo senso ci bisticcia per rimanere in un punto centrale e fare le fotografie da una certa angolazione. Fa avanti e indietro per un po’. Attacca bottone sul livello dell’acqua. Si mette a fare una diretta Facebook in cui spiega la bassa marea eccezionale di quella sera. Attacca bottone di nuovo. Ci chiede sostanzialmente cosa studiamo e se abbiamo piani per il giorno dopo. Ci invita alle Vignole.

I ragazzi dall’altro lato del canale guardano un po’ sconcertati, ridacchiando, io che mi sporgo per prendere un quaderno rosso da un perfetto sconosciuto. Anch’io al posto loro avrei guardato la scena allo stesso modo? forse sì. Gli lasciamo le nostre mail e il numero di Gio. Lui ci invita a seguirlo su Facebook, dove c’è la locandina dell’evento. Si legge: Wigman presenta ‘Il giardino che ri_genera la comunità’ ideato e creato da Associazione Veras, isola delle Vignole, Venezia. Non molto altro, accenni al fatto che verrà trasmesso su una radio, tutto un po’ vago.

Noi decidiamo di andare, pur sapendo solo che: lui preparerà uno sformato di salmone, dobbiamo farci trovare in quello stesso posto alle nove e tre quarti, molti veneziani molte signore che fanno molte torte salate vanno su quest’isola dove c’è un orto comune (quest’ultima parte tratta pari pari da un mio vocale in cui racconto l’incontro), lui molto felice di avere nuove giovani leve, promesse castagne per festeggiare San Martino.

Io venerdì sera (da un altro vocale) <come si può rifiutare un invito del genere? voglio dire: hai la barca, le castagne, un’isola mezza deserta>. Torniamo a casa gasate, facendo progetti sul portare a nostra volta una torta salata, fatta da Gio, e siamo scioccate quando qualcuno avanza l’ipotesi che il signor Giovanni, perché così si chiama, potrebbe volerci adescare. Molto serafiche ci convinciamo che sì, potrebbe sequestrarci, ma almeno saremo in due (+ proposta di Gio: buttarci in canale in caso di adescamento, così alla peggio dovremmo solo passare in ospedale nel pomeriggio per l’antitetanica).

Alla fine l’antitetanica è stata meno peggio di quanto non mi aspettassi e le infermiere gentilissime! Okay, okay, avete letto il titolo, siamo arrivate alle Vignole sane e salve! Alle nove e tre quarti eccoci sedute allo stesso posto di poche ore prima e con noi anche Pietro, ‘un amico che ha sentito la storia e vuole venire’. Però passano cinque minuti e del signor Giovanni nessuna traccia, altri cinque, iniziamo a preoccuparci. Ogni barca che spunta nel canale è accolta dai nostri sguardi ansiosi. Facciamo battute su una cosa che aveva detto la sera prima: 1/3 di solito pacca e, inaspettatamente, ci ha paccate lui. Poi spunta ad est. In barca altre due persone: un uomo e una donna di circa la stessa età del signor Giovanni.

Saliamo e ripartiamo subito per andare a prendere altre signore. Capiamo dopo qualche minuto che la donna è sua moglie e l’altro è il fratello di lei, entrambi veneziani. Giovanni invece di presentarci per bene ha tirato fuori una bandiera da issare in poppa. Scivoliamo sul Canal Grande, sotto il Ponte degli Scalzi, tra i vaporetti, le vere strade di Venezia. Poco dopo la bandiera raschierà il marmo di un ponte un po’ troppo basso per lei, con lamentele varie di due gondolieri vicini. Procederemo togliendola momentaneamente.

Arriviamo vicino ai gesuiti, difficile orientarsi per noi in queste strade più basse, che si snodano per la città in modo diverso dalle calli su cui ci muoviamo di solito. In un certo senso sono complementari, ma in un modo tutto loro. Non dividono lo spazio come un marciapiede e una strada, ma più come vene che si diramano nella carne.

Giovanni ormeggia la barca e urla che siamo arrivati. La moglie, Margherita, gli dice di non fare chiasso. Lui invita delle passanti alle Vignole, dà indicazioni sul vaporetto da prendere. Salta giù dalla barca e va a bussare a una porta. Poco dopo ne escono due donne, una dell’età di Giovanni e una nonnina, che si uniscono a noi sulla barca. Nessuno ci presenta per bene e scopriamo solo quando siamo in mare aperto che la donna è un ex collega di Giovanni e la signora con lei è sua madre. La nonnina, seduta in prua con Margherita, si tira su il cappuccio. Il mare aperto punge le guance.

Rimettiamo la bandiera. La barca sobbalza appena mentre punta verso le Vignole. Uno stormo di (internet le chiama) gru cenerine (i nostri compagni di viaggio le chiamano in un altro modo) passa a V sopra di noi. Ci raccontano dell’Arsenale. Di una barca che è stata costruita in un giorno sotto gli occhi del re di Spagna. Di D’annunzio che viveva all’Arsenale e faceva piani di guerra con un giapponese, che gli ha insegnato l’arte degli haiku. L’isola si avvicina e si avvicina e non ce ne accorgiamo nemmeno.

Dapprima il signor Giovanni ci porta davanti alla casa del fondatore dell’orto, circondata da tamerici che si sporgono sull’acqua salata. Lui non c’è, ci avrà preceduto. Inizia la storia dell’orto: un pezzo di terra di quattro ettari che appartiene al demanio marittimo e che si può chiedere in gestione per un certo numero di anni come tanti altri nella laguna. E’ la storia di una terra di rovi, che in un anno di lavoro ha portato a quello che stiamo per vedere. A Vignole non tutti sono entusiasti della cosa, due tizi si sono opposti alla regolamentazione della strada che dalla fermata del vaporetto porta all’entroterra. Tutto si è risolto con due ponti: uno per ogni corrente di pensiero.

Entriamo nel canale che divide l’isola da nord a sud. Incontriamo due dell’orto su un trattore Goldoni: uno guida e l’altro è attaccato dietro in modo precario, in mezzo a delle casse. Salutano entusiasti. Si fermano accanto a dove decidiamo di attraccare noi e ci aiutano a scaricare. Così sbarchiamo alle Vignole.

Co

inverno 2019, campo dei Tolentini, prospettiva dalle scale dove eravamo sedute io e Gio

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