cinema svizzero a venezia – titoli di coda per l’undicesima edizione del festival

Settimana scorsa, dopo le lezioni, sono corsa tutti i pomeriggi in Campo Sant’Agnese, dietro il museo dell’Accademia, dove si è svolta l’undicesima edizione del Festival del Cinema Svizzero a Venezia. Si tratta di un’iniziativa organizzata da più di dieci anni dal Consolato che, oltre a proiettare opere del cinema contemporaneo, invita in città registi e altri personaggi di spicco del cinema svizzero, come il direttore della Cinémathéque Suisse e del Festival di Locarno, Frédéric Maire, che sabato sera ha presentato ‘Charles Mort Ou Vif‘ di Alain Tanner.

Quest’ultimo film è stato forse il mio preferito della rassegna e credo sia esemplificativo di tutto il lavoro del festival, e del Consolato in generale, che vede il suo fulcro nel trovare e proporre delle opere che possano parlare, certo, della Svizzera, ma soprattutto aprire una dimensione dialogica tra il pubblico e lo schermo. E’ incredibile, infatti, come ‘Charles Mort Ou Vif‘ risulti moderno a cinquant’anni di distanza dalla sua creazione e riesca a interrogarci in modo diretto sulle vite che ognuno di noi sceglie, ieri come oggi.

La storia segue un imprenditore ginevrino che repentinamente lascia la sua azienda, senza avvisare nessuno, e inizia a vagare per la città, nascondendosi dalle sue vecchie responsabilità e aprendosi a nuovi incontri. Radiografia critica della Svizzera degli anni ’60, il film d’esordio di Tanner è una favola ribelle, malinconica e a tratti super spassosa. (attualmente su Mubi)

Una scena da ‘Charles Mort Ou Vif’ (1969, Alain Tanner)

Sulla scia di Alain Tanner si sta aprendo uno spazio di riflessione per alcuni giovani registi svizzeri contemporanei, tra cui Cyril Schäublin, presente al festival con Unrueh‘. Anche in questo caso si parte da un grande centro di produzione industriale, la più grande fabbrica di orologi alla fine del diciannovesimo secolo, per arrivare a una ponderazione più problematizzata del tempo umano. Le declinazioni sono molteplici, come lo sono i tempi della storia, che si sviluppa in un villaggio in cui coesistono quattro fusi orari diversi. Il titolo, che si traduce con ‘agitazione’, si lega da un lato alla trama che contrappone un gruppo operaio di anarchici ai padroni dell’industria, dall’altro al processo industriale stesso, che nel caso della fabbrica di orologi consiste nel ponderare il movimento di agitazione della molla meccanica alla base di tutto il congegno. Nel film il tempo dell’uomo si contrappone a quello della natura, con delle scelte di regia audaci, che usano molti campi lunghi in cui i protagonisti si confondono con elementi del paesaggio.

Una scena da ‘Unrueh’ (2022, Cyril Schäublin)

Alcune scelte di ‘Unrueh’, come l’uso di attori non professionisti e di luci esclusivamente naturali per girare, oltre a una storia raccontata con un ritmo meno concitato di quanto non siamo stati sempre abituati, sono condivise dalla sperimentazione di altri autori presenti al festival, in particolare di Micheal Koch e il suoDrii Winter‘.

Il film, che rappresenterà la Svizzera ai prossimi Oscar, segue i protagonisti e la loro vita in un piccolo villaggio di montagna, messa a dura prova dall’insorgere dei segni di una strana malattia che inizia a colpire uno dei due. Si tratta di una storia che ancora una volta sembra essere intrinsecamente e profondamente legata alla natura dei luoghi in cui si sviluppa e, in questo caso, lo è anche per la ricerca di diversi anni che ha preceduto il film, ad opera del regista, interessato a restituire la vita vera degli abitanti del posto. Ad accompagnare il film a Venezia è arrivato il direttore della fotografia, Armin Dieroff, che ha raccontato alcuni punti fondamentali dell’opera, come la scelta di introdurre un coro, che inframezzasse la narrazione e fosse inserito in maniera tutta sua nel contesto naturale, secondo uno schema drammatico tipico della tragedia greca.

Una scena da ‘Drii Winter’ (2022, Micheal Koch)

I luoghi come fulcri della narrazione credo si possano definire come una delle direttive principali dell’edizione del festival di quest’anno, a partire dal film di apertura ‘Il sergente dell’Altopiano. La storia di Mario Rigoni Stern‘ di Federico Massa e Tommaso Brugin. Chi mi conosce sa che non posso rimanere obiettiva quando si finisce in quei luoghi, ovvero sull’Altopiano di Asiago, ma a prescindere dalle mie posizioni personali, il film segue lo scrittore a spasso per i boschi e altri luoghi a lui cari. Si tratta di un documentario di montaggio in cui si sovrappongono due sfere temporali, con immagini d’archivio su cui sono sapientemente costruite le testimonianze di oggi. Gli intervistati ritornano nei posti di famose interviste dello scrittore e danno l’idea di camminargli in qualche modo accanto.

Ma chi più di ‘Architettura dell’infinito‘ ha interpellato se stesso e il pubblico sul profondo senso di connessione tra l’uomo e i luoghi? Alla ricerca di progetti che restituissero una dimensione fisica (e metafisica) in qualche modo magica e ultraterrena, aperta all’universale si potrebbe dire, Christoph Schaub ha girato il mondo con la sua macchina da presa e intervistato quanti più architetti possibile. Il risultato è un’indagine sui limiti dello sguardo umano, oltre che del pensiero, che in ultima analisi ha a che fare con l’architettura, tanto quanto con il senso della vita e il senso del sacro che ispira. Magnifico.

Una scena da ‘ARCHITEKTUR DER UNENDLICHKEIT‘ (2018, Christoph Shaub)

La rassegna non si è concentrata solamente su luoghi di montagna, come potrebbe sembrare dal mio resoconto fino ad ora, perché nella selezione era presente anche ‘Becoming Giulia‘ di Laura Kaehr, ambientato al Teatro dell’Opera di Zurigo, intorno a cui ruota (o volteggia, se preferite) la vita della protagonista, prima ballerina lì. Il film è un documentario che immerge gli spettatori nella quotidianità di Giulia Tonelli, nel momento in cui torna al lavoro dopo la sua prima maternità e cerca un equilibrio tra l’ambiente dell’Opera e la sua nuova dimensione famigliare. Il modo in cui la regista è entrata in connessione con il suo soggetto e lo ha restituito al pubblico è stata per tutti un’esperienza unica al festival; ancora più emozionante quando le luci in sala si sono riaccese e Giulia era lì con la sua famiglia. Ma questo è solo uno degli esempi che potrei fare degli incontri e delle riflessioni che il festival ha reso possibili settimana scorsa.

Spero di avervi dato un’idea quanto più vicina della mia esperienza a questo festival, oltre che avervi magari fatto segnare qualche titolo per future visioni. A conclusione di questo resoconto non posso che incoraggiarvi a tenere d’occhio gli eventi del Consolato (anche a Milano, non solo a Venezia), perché credo meritino la nostra attenzione. Del resto non è facile creare una rassegna così diversificata e al contempo percepibilmente rivolta verso un comune orizzonte di indagine e per questo il festival mi ha sorpresa e ‘fidelizzata’ a Campo Sant’Agata da qui in poi.

Buone visioni!

Costanza