who’s this

Born and raised in Italy. I lived in Bergamo, Padova and Venezia, where I did a BA in Italian Literature and Philology. Recently I’ve moved to the Netherlands for a research Master in Comparative Literature.

I usually write a lot, especially about films, books, people around me and Venezia. I collaborate with some online magazines, such as Uncle Yanco, but it also happens to me to write stuff that is not necessarily an article and this is why this website exists. 

When I feel the urge to write and need a space to share things I create, in a less pre-organised way than a social media page, I use this site. In many ways, this is a sort of an online diary, but not like one from a cheese movie in the early 2000s. It’s more like a moodboard kinda situation.

I’d love to have websites instead of Instagram profiles to look at when I’m meeting someone new: I feel it would reflect more the space of difference between identities. So, I hope you’ll enjoy this place and find something cool to read along the way!

Costanza

n.b. you can contact me here: truecosty@gmail.com

chi sono – Costanza

metà bergamasca, metà padovana. fino a qualche mese fa passavo le mie giornate tra le calli di Venezia, dove studiavo lettere moderne all’università. dopo la laurea triennale, sono finita un po’ più a nord… in Olanda! ora sono in un programma magistrale di letteratura comparata a Utrecht.

scrivo articoli, soprattutto di cinema, per Argo e Uncle Yanco, ma ho anche questo sito per raccogliere tutto quello che non rientra sotto la dicitura di recensione-articolo-intervista.

di fatto questo spazio è un po’ il mio diario online, ma non come fosse un blog tenuto dalla protagonista di un qualche film sdolcinato di inizio anni 2000, quanto piuttosto uno spazio-bacheca che posso gestire e ampliare come e quanto voglio, lontano dall’omologazione di un posto analogo su un social network.

invece di un profilo Instagram non sarebbe male se tutti avessero un sito, perché lascia spazio a molte più parti di noi di emergere. all’inizio è un monolocale vuoto, ma con il tempo diventa sempre più casa.

ti do quindi il benvenuto e spero tu possa trovare qualcosa da leggere che faccia al caso tuo!

altro non aggiungerò, perché Kavafis dice

E se non puoi la vita che desideri
cerca almeno questo
per quanto sta in te: non sciuparla
nel troppo commercio con la gente
con troppe parole in un viavai frenetico.
Non sciuparla portandola in giro
in balía del quotidiano
gioco balordo degli incontri
e degli inviti,
fino a farne una stucchevole estranea.

puoi contattarmi a truecosty@gmail.com

Antonioni e la trilogia dell’incomunicabilità

Cosa cerchiamo negli altri? La trilogia dell’incomunicabilità mi ha dato come una spinta atavica verso queste righe. Riusciamo a vedere davvero chi abbiamo davanti? Riusciamo ad essere visti? Tarkovsky analizzando il finale de La Notte (1961) parla di due persone che non provano più nulla l’una per l’altra, che hanno perso tutta l’attrazione e i sentimenti di un tempo, ciononostante hanno come una sensazione di vicinanza, un’appartenenza fisica e spirituale che non riescono a lasciarsi alle spalle. I due protagonisti stanno come annegando e si tengono abbracciati per salvarsi reciprocamente. Non hanno più nulla da dirsi, ma rimangono seduti uno accanto all’altra e quando lei legge la lettera, lui non riconosce quelle parole, che ha scritto molto tempo prima, e le chiede di chi siano. È una scena inclemente. È una trilogia inclemente, disillusa, rassegnata.

Il primo lavoro è L’Avventura (1960). Monica Vitti, figura al contempo incurante e disarmante, cerca un’amica che si è persa. I capelli scompigliati dal vento e una linea nera che le delinea decisa gli occhi. Vaga per un’isola deserta, una minuscola isola del Mediterraneo. Cerca in ogni angolo, in ogni spelonca, ma l’amica sembra sparita nel nulla. Erano partire insieme con un gruppo di amici, qualche tuffo in mare e partite a carte, ma durante un’escursione lei ha litigato con il fidanzato e si è volatilizzata. Salgono e scendono tra gli scogli. Non la trovano. Non si trova, è stata come inghiottita dall’isola, lasciando lei e il fidanzato sulle sue tracce. Monica perlustra tutta l’isola, testarda, vuole vederci chiaro, ma non trova che una cosa: una passione travolgente per lui e uno sconvolgente senso di colpa. I due si guardano e si bramano nel silenzio di un lutto che non è nemmeno chiaro se sia tale o no. Si intrecciano sguardi e parole, tutto si confonde. La verità sulla sparizione, i sentimenti che si fanno spazio tra loro, la confusione per come si possa dimenticare e ardere. Solo lei prova tutto questo? Lui sembra pronto a lanciarsi senza remore, senza risentimenti.

Le donne di tutta la trilogia sono isolate nei loro pensieri, nei loro sentimenti, nei loro desideri. Gli uomini che hanno accanto bruciano per loro un attimo, per poi rivolgersi altrove, non riescono mai a creare un legame diverso. Non riescono a capirsi, a guardarsi davvero, a parlare, ma nessuno ha colpa di questo, sembra una situazione inevitabile. Camminano l’uno accanto all’altra e non sanno cosa stia pensando, l’altro. Si siedono vicini, ma sono irrimediabilmente distanti. Monica Vitti è il minimo comune denominatore di questi tre film, insieme ad Antonioni, e presta il suo volto e i suoi sguardi per restituirci tutto quello che potrebbe essere, ma che non è, che non si spiega, non si scioglie. Gli uomini corrono dietro i loro desideri e alle donne non rimane che guardarli allontanarsi. Quando si trovano, hanno due conversazioni in parallelo, non si ascoltano, guardano il mondo con i loro occhi e solo quelli.

Il secondo lavoro è La Notte (1961). Un senso di precarietà si avvinghia allo spettatore fin da subito, quando i due protagonisti, Marcello Mastroianni e Jeanne Moreau, vanno a trovare in ospedale un loro amico scrittore che sta morendo. Mastroianni, anch’egli scrittore, ha una presentazione proprio quel pomeriggio e non sembra turbato dalla visita di quella mattina, lo vediamo muoversi sicuro tra la folla. Moreau, al contrario, lascia l’evento (in un modo, per inciso, molto simile a come accade in The worst person in the world di Joaquim Trier) e inizia una serie di peregrinazioni cittadine senza meta. Lui non sa dove cercarla, poi lei lo chiama, si ritrovano, ma sono irrimediabilmente distanti. Lo sono di partenza, quella mattina in ospedale… non sembrano una coppia. Quella stessa sera lei gli chiede di passarle un asciugamano dopo un bagno e lui non la guarda nemmeno. Lei si tormenta, ma non dice nulla. L’apoteosi della parabola tra i due accade a una festa, quella notte. Entrambi si lanciano in avventure deludenti, per poi ritrovarsi di nuovo alle soglie del giorno, non avendo nulla da dirsi, ma scegliendosi ancora, due amanti febbricitanti, che hanno imparato solo quello, a scegliersi ancora e ancora, nonostante tutta la distanza che li separa.

C’è stato un momento in cui le cose sono andate diversamente? Il film non ce lo mostra. Non sappiamo se quella distanza incolmabile è, come nel film precedente, frutto di due posizioni diverse in partenza. La lettera che Moreau legge alla fine del film fa riflettere sull’intensità dei sentimenti che possiamo provare, sul grado di connessione che possiamo sentire davanti a un’altra persona, ma si confronta con quell’enorme vuoto tra i personaggi, tutto quello che è rimasto alla fine della notte.

L’ultimo lavoro è L’Eclisse (1962). Rispetto agli altri due film ci sono molti più elementi in linea con Blow-up (1969), come un’attenzione crescente verso lo spazio urbano e il suo ruolo nella storia. L’incomunicabilità qui prende spazio tra i personaggi in modo diverso, è un tema che attraversa il dialogo non solo tra i due protagonisti, ma anche tra tutti coloro che entrano in relazione con loro. Questa trilogia prende la forma di Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? Un senso di isolamento sempre più marcato si distende tra un film e l’altro. Domande senza risposte, parole scambiate come tra persone che parlano lingue diverse. Cosa rimane alla fine della storia? Un silenzio.

Tutti e tre i film si trovano su You Tube. Spero che queste mie elucubrazioni possano giovare a qualcuno. Buona visione 🙂

cinema svizzero a venezia – titoli di coda per l’undicesima edizione del festival

Settimana scorsa, dopo le lezioni, sono corsa tutti i pomeriggi in Campo Sant’Agnese, dietro il museo dell’Accademia, dove si è svolta l’undicesima edizione del Festival del Cinema Svizzero a Venezia. Si tratta di un’iniziativa organizzata da più di dieci anni dal Consolato che, oltre a proiettare opere del cinema contemporaneo, invita in città registi e altri personaggi di spicco del cinema svizzero, come il direttore della Cinémathéque Suisse e del Festival di Locarno, Frédéric Maire, che sabato sera ha presentato ‘Charles Mort Ou Vif‘ di Alain Tanner.

Quest’ultimo film è stato forse il mio preferito della rassegna e credo sia esemplificativo di tutto il lavoro del festival, e del Consolato in generale, che vede il suo fulcro nel trovare e proporre delle opere che possano parlare, certo, della Svizzera, ma soprattutto aprire una dimensione dialogica tra il pubblico e lo schermo. E’ incredibile, infatti, come ‘Charles Mort Ou Vif‘ risulti moderno a cinquant’anni di distanza dalla sua creazione e riesca a interrogarci in modo diretto sulle vite che ognuno di noi sceglie, ieri come oggi.

La storia segue un imprenditore ginevrino che repentinamente lascia la sua azienda, senza avvisare nessuno, e inizia a vagare per la città, nascondendosi dalle sue vecchie responsabilità e aprendosi a nuovi incontri. Radiografia critica della Svizzera degli anni ’60, il film d’esordio di Tanner è una favola ribelle, malinconica e a tratti super spassosa. (attualmente su Mubi)

Una scena da ‘Charles Mort Ou Vif’ (1969, Alain Tanner)

Sulla scia di Alain Tanner si sta aprendo uno spazio di riflessione per alcuni giovani registi svizzeri contemporanei, tra cui Cyril Schäublin, presente al festival con Unrueh‘. Anche in questo caso si parte da un grande centro di produzione industriale, la più grande fabbrica di orologi alla fine del diciannovesimo secolo, per arrivare a una ponderazione più problematizzata del tempo umano. Le declinazioni sono molteplici, come lo sono i tempi della storia, che si sviluppa in un villaggio in cui coesistono quattro fusi orari diversi. Il titolo, che si traduce con ‘agitazione’, si lega da un lato alla trama che contrappone un gruppo operaio di anarchici ai padroni dell’industria, dall’altro al processo industriale stesso, che nel caso della fabbrica di orologi consiste nel ponderare il movimento di agitazione della molla meccanica alla base di tutto il congegno. Nel film il tempo dell’uomo si contrappone a quello della natura, con delle scelte di regia audaci, che usano molti campi lunghi in cui i protagonisti si confondono con elementi del paesaggio.

Una scena da ‘Unrueh’ (2022, Cyril Schäublin)

Alcune scelte di ‘Unrueh’, come l’uso di attori non professionisti e di luci esclusivamente naturali per girare, oltre a una storia raccontata con un ritmo meno concitato di quanto non siamo stati sempre abituati, sono condivise dalla sperimentazione di altri autori presenti al festival, in particolare di Micheal Koch e il suoDrii Winter‘.

Il film, che rappresenterà la Svizzera ai prossimi Oscar, segue i protagonisti e la loro vita in un piccolo villaggio di montagna, messa a dura prova dall’insorgere dei segni di una strana malattia che inizia a colpire uno dei due. Si tratta di una storia che ancora una volta sembra essere intrinsecamente e profondamente legata alla natura dei luoghi in cui si sviluppa e, in questo caso, lo è anche per la ricerca di diversi anni che ha preceduto il film, ad opera del regista, interessato a restituire la vita vera degli abitanti del posto. Ad accompagnare il film a Venezia è arrivato il direttore della fotografia, Armin Dieroff, che ha raccontato alcuni punti fondamentali dell’opera, come la scelta di introdurre un coro, che inframezzasse la narrazione e fosse inserito in maniera tutta sua nel contesto naturale, secondo uno schema drammatico tipico della tragedia greca.

Una scena da ‘Drii Winter’ (2022, Micheal Koch)

I luoghi come fulcri della narrazione credo si possano definire come una delle direttive principali dell’edizione del festival di quest’anno, a partire dal film di apertura ‘Il sergente dell’Altopiano. La storia di Mario Rigoni Stern‘ di Federico Massa e Tommaso Brugin. Chi mi conosce sa che non posso rimanere obiettiva quando si finisce in quei luoghi, ovvero sull’Altopiano di Asiago, ma a prescindere dalle mie posizioni personali, il film segue lo scrittore a spasso per i boschi e altri luoghi a lui cari. Si tratta di un documentario di montaggio in cui si sovrappongono due sfere temporali, con immagini d’archivio su cui sono sapientemente costruite le testimonianze di oggi. Gli intervistati ritornano nei posti di famose interviste dello scrittore e danno l’idea di camminargli in qualche modo accanto.

Ma chi più di ‘Architettura dell’infinito‘ ha interpellato se stesso e il pubblico sul profondo senso di connessione tra l’uomo e i luoghi? Alla ricerca di progetti che restituissero una dimensione fisica (e metafisica) in qualche modo magica e ultraterrena, aperta all’universale si potrebbe dire, Christoph Schaub ha girato il mondo con la sua macchina da presa e intervistato quanti più architetti possibile. Il risultato è un’indagine sui limiti dello sguardo umano, oltre che del pensiero, che in ultima analisi ha a che fare con l’architettura, tanto quanto con il senso della vita e il senso del sacro che ispira. Magnifico.

Una scena da ‘ARCHITEKTUR DER UNENDLICHKEIT‘ (2018, Christoph Shaub)

La rassegna non si è concentrata solamente su luoghi di montagna, come potrebbe sembrare dal mio resoconto fino ad ora, perché nella selezione era presente anche ‘Becoming Giulia‘ di Laura Kaehr, ambientato al Teatro dell’Opera di Zurigo, intorno a cui ruota (o volteggia, se preferite) la vita della protagonista, prima ballerina lì. Il film è un documentario che immerge gli spettatori nella quotidianità di Giulia Tonelli, nel momento in cui torna al lavoro dopo la sua prima maternità e cerca un equilibrio tra l’ambiente dell’Opera e la sua nuova dimensione famigliare. Il modo in cui la regista è entrata in connessione con il suo soggetto e lo ha restituito al pubblico è stata per tutti un’esperienza unica al festival; ancora più emozionante quando le luci in sala si sono riaccese e Giulia era lì con la sua famiglia. Ma questo è solo uno degli esempi che potrei fare degli incontri e delle riflessioni che il festival ha reso possibili settimana scorsa.

Spero di avervi dato un’idea quanto più vicina della mia esperienza a questo festival, oltre che avervi magari fatto segnare qualche titolo per future visioni. A conclusione di questo resoconto non posso che incoraggiarvi a tenere d’occhio gli eventi del Consolato (anche a Milano, non solo a Venezia), perché credo meritino la nostra attenzione. Del resto non è facile creare una rassegna così diversificata e al contempo percepibilmente rivolta verso un comune orizzonte di indagine e per questo il festival mi ha sorpresa e ‘fidelizzata’ a Campo Sant’Agata da qui in poi.

Buone visioni!

Costanza

una lista di molti e troppi (e troppo stupidi) motivi per cui l’autunno è il massimo

-foglie non più solo verdi

-momento dell’anno in cui si ricomincia a indossare i maglioni

-arriva quell’aria un po’ fredda che pizzica le guance

-si beve qualcosa di caldo molto più volentieri

-il sole tramonta prima e in genere quando si torna a casa ci sono tutte le luci accese nelle case e si può sbirciare dentro

-abbinamento castagne, vino rosso, mandarini, bagigi (10/10)

-festa di San Martino con relativa torta

-stagione delle migliori albe e dei migliori tramonti… per lo meno in Città Alta

-momento dell’anno in cui si ricomincia a pensare al Natale, ma non con l’ansia di averlo vicino, solo come vago pensiero rassicurante

-camminare tra le foglie cadute per terra

-quelle giornate in cui fa freddo, ma il sole fa un ultimo sforzo e puoi comunque andare al parco, se ne hai voglia

-zucca

-quei momenti dove il cielo è tutto azzurro e limpido ma fa freddo (proprio perché c’è un vento fortissimo che ha spostato tutte le nuvole)

-mio compleanno

-quando c’è quello strano effetto per cui i rami non sono più coperti dalla chioma dell’albero ed è come se si vedesse lo scheletro, in qualche modo, con poche foglie ancora attaccate (è difficile da spiegare ma è davvero bello)

-mandarino forse mio frutto preferito (?)

-quei giorni dove non hai ancora il cappotto, ma un maglione pesante sotto una giacchetta

-l’autunno prevede una palette tutta sua che si applica anche alle persone (per lo meno le mie preferite)

-bere la cioccolata calda quando non è ancora inverno (10/10)

-calzettoni per girare in casa

-freddo = momento perfetto per riascoltarsi tutto quello che hanno fatto carl brave x franco 126 e ritornare alla sensazione (anche proprio fisica) di avere diciassette anni e camminare in uno specifico punto del passato

-stormi di uccelli che migrano (submitted by teresa ! )

peregrinazioni lagunari o cronaca di un sabato di trentasei ore o storia di come siamo sbarcati alle Vignole

Questo racconto potrebbe essere benissimo una puntata di podcast, ma visto che non ne ho uno (ancora, chissà), e voglio trovare le giuste parole per dare questa storia a ognuno di voi, eccomi riapprodare qui.

Se fosse una puntata di podcast, so per certo che mi piacerebbe iniziare con questa canzone in sottofondo: https://open.spotify.com/track/2pM4Q4QqE7CtGmjfjbDLvE?si=gEoiUYqkSmyKkDAxnfWxgA&utm_source=copy-link e poi probabilmente esagererei e userei tutto l’album da cui è tratta… ma procediamo con ordine!

Solo due giorni fa, incredibile a dirsi, celebravo la vita con l’antico rituale che si tramanda di veneto in veneto secondo cui, ogni giorno, si dovrebbe salutare il sole con un’ombra (versione per chi studia a Venezia: stavo bevendo da Lele). Era il giorno di San Martino (perché questa storia è intrisa di tradizione e di feste in modi imprevedibili e vicini al mio cuore) e stavo già pensando al dolce del cavaliere che avrei diviso con la mia famiglia a cena. Era un doppio giorno di festa, perché in piazza San Marco avevano proclamato qualche centinaio di lauree e la città era gremita di famiglie e amici per fare, appunto, festa. Questo è il motivo principale per cui io e Gio ci siamo sedute dall’altra parte del canale rispetto al bacaro dove avevamo preso da bere, isolate dalla calca dei festeggiamenti.

Eravamo sedute sui quei gradini che scendono in acqua, che a Venezia sono tanto frequenti quanto quelli che vanno in cantina nelle altre città, e mangiavamo del formaggio eccetera. A un certo punto arriva un signore in barca e si mette a fotografare le scale su cui siamo sedute e in generale il livello dell’acqua del canale. Viene spinto in avanti dalla corrente e in un certo senso ci bisticcia per rimanere in un punto centrale e fare le fotografie da una certa angolazione. Fa avanti e indietro per un po’. Attacca bottone sul livello dell’acqua. Si mette a fare una diretta Facebook in cui spiega la bassa marea eccezionale di quella sera. Attacca bottone di nuovo. Ci chiede sostanzialmente cosa studiamo e se abbiamo piani per il giorno dopo. Ci invita alle Vignole.

I ragazzi dall’altro lato del canale guardano un po’ sconcertati, ridacchiando, io che mi sporgo per prendere un quaderno rosso da un perfetto sconosciuto. Anch’io al posto loro avrei guardato la scena allo stesso modo? forse sì. Gli lasciamo le nostre mail e il numero di Gio. Lui ci invita a seguirlo su Facebook, dove c’è la locandina dell’evento. Si legge: Wigman presenta ‘Il giardino che ri_genera la comunità’ ideato e creato da Associazione Veras, isola delle Vignole, Venezia. Non molto altro, accenni al fatto che verrà trasmesso su una radio, tutto un po’ vago.

Noi decidiamo di andare, pur sapendo solo che: lui preparerà uno sformato di salmone, dobbiamo farci trovare in quello stesso posto alle nove e tre quarti, molti veneziani molte signore che fanno molte torte salate vanno su quest’isola dove c’è un orto comune (quest’ultima parte tratta pari pari da un mio vocale in cui racconto l’incontro), lui molto felice di avere nuove giovani leve, promesse castagne per festeggiare San Martino.

Io venerdì sera (da un altro vocale) <come si può rifiutare un invito del genere? voglio dire: hai la barca, le castagne, un’isola mezza deserta>. Torniamo a casa gasate, facendo progetti sul portare a nostra volta una torta salata, fatta da Gio, e siamo scioccate quando qualcuno avanza l’ipotesi che il signor Giovanni, perché così si chiama, potrebbe volerci adescare. Molto serafiche ci convinciamo che sì, potrebbe sequestrarci, ma almeno saremo in due (+ proposta di Gio: buttarci in canale in caso di adescamento, così alla peggio dovremmo solo passare in ospedale nel pomeriggio per l’antitetanica).

Alla fine l’antitetanica è stata meno peggio di quanto non mi aspettassi e le infermiere gentilissime! Okay, okay, avete letto il titolo, siamo arrivate alle Vignole sane e salve! Alle nove e tre quarti eccoci sedute allo stesso posto di poche ore prima e con noi anche Pietro, ‘un amico che ha sentito la storia e vuole venire’. Però passano cinque minuti e del signor Giovanni nessuna traccia, altri cinque, iniziamo a preoccuparci. Ogni barca che spunta nel canale è accolta dai nostri sguardi ansiosi. Facciamo battute su una cosa che aveva detto la sera prima: 1/3 di solito pacca e, inaspettatamente, ci ha paccate lui. Poi spunta ad est. In barca altre due persone: un uomo e una donna di circa la stessa età del signor Giovanni.

Saliamo e ripartiamo subito per andare a prendere altre signore. Capiamo dopo qualche minuto che la donna è sua moglie e l’altro è il fratello di lei, entrambi veneziani. Giovanni invece di presentarci per bene ha tirato fuori una bandiera da issare in poppa. Scivoliamo sul Canal Grande, sotto il Ponte degli Scalzi, tra i vaporetti, le vere strade di Venezia. Poco dopo la bandiera raschierà il marmo di un ponte un po’ troppo basso per lei, con lamentele varie di due gondolieri vicini. Procederemo togliendola momentaneamente.

Arriviamo vicino ai gesuiti, difficile orientarsi per noi in queste strade più basse, che si snodano per la città in modo diverso dalle calli su cui ci muoviamo di solito. In un certo senso sono complementari, ma in un modo tutto loro. Non dividono lo spazio come un marciapiede e una strada, ma più come vene che si diramano nella carne.

Giovanni ormeggia la barca e urla che siamo arrivati. La moglie, Margherita, gli dice di non fare chiasso. Lui invita delle passanti alle Vignole, dà indicazioni sul vaporetto da prendere. Salta giù dalla barca e va a bussare a una porta. Poco dopo ne escono due donne, una dell’età di Giovanni e una nonnina, che si uniscono a noi sulla barca. Nessuno ci presenta per bene e scopriamo solo quando siamo in mare aperto che la donna è un ex collega di Giovanni e la signora con lei è sua madre. La nonnina, seduta in prua con Margherita, si tira su il cappuccio. Il mare aperto punge le guance.

Rimettiamo la bandiera. La barca sobbalza appena mentre punta verso le Vignole. Uno stormo di (internet le chiama) gru cenerine (i nostri compagni di viaggio le chiamano in un altro modo) passa a V sopra di noi. Ci raccontano dell’Arsenale. Di una barca che è stata costruita in un giorno sotto gli occhi del re di Spagna. Di D’annunzio che viveva all’Arsenale e faceva piani di guerra con un giapponese, che gli ha insegnato l’arte degli haiku. L’isola si avvicina e si avvicina e non ce ne accorgiamo nemmeno.

Dapprima il signor Giovanni ci porta davanti alla casa del fondatore dell’orto, circondata da tamerici che si sporgono sull’acqua salata. Lui non c’è, ci avrà preceduto. Inizia la storia dell’orto: un pezzo di terra di quattro ettari che appartiene al demanio marittimo e che si può chiedere in gestione per un certo numero di anni come tanti altri nella laguna. E’ la storia di una terra di rovi, che in un anno di lavoro ha portato a quello che stiamo per vedere. A Vignole non tutti sono entusiasti della cosa, due tizi si sono opposti alla regolamentazione della strada che dalla fermata del vaporetto porta all’entroterra. Tutto si è risolto con due ponti: uno per ogni corrente di pensiero.

Entriamo nel canale che divide l’isola da nord a sud. Incontriamo due dell’orto su un trattore Goldoni: uno guida e l’altro è attaccato dietro in modo precario, in mezzo a delle casse. Salutano entusiasti. Si fermano accanto a dove decidiamo di attraccare noi e ci aiutano a scaricare. Così sbarchiamo alle Vignole.

Co

inverno 2019, campo dei Tolentini, prospettiva dalle scale dove eravamo sedute io e Gio

I have so many interests in different things. I'm sure it's exhausting, but I'm just doing me!