Category Archives: riflessioni estemporanee

è tutto uguale, è tutto uguale

nove novembre

continuo a dirmi ”è tutto uguale, è tutto uguale”, ma cosa mi aspettavo fosse cambiato?


ho scritto quella riga mentre ero in treno. da padova a venezia. ora sono sul treno del ritorno e mi sento un po’ sottosopra. o forse dovrei dire un po’ avantindietro. ho salutato teresa al binario e ovviamente pioveva. da qui a natale la mia vita sarà molto diversa. teresa vorrei averla con me, specie la sera, per cucinare insieme, guardare un film, o leggere in silenzio una accanto all’altra. anche tommi mi mancava, la sua dolcezza, il suo essere giocoso quando ti parla, il modo in cui formula le cose. ora che vivono insieme sono ancora più tere e tommi. questo pomeriggio è stato come sempre. forse non me ne sono mai andata. zattere era lì. campo sant’agnese era lì. addirittura elia era davanti ai frari, dove lo vedevo sempre. ogni calle, ogni ponte, ogni nuvola, era al suo posto. ed è rassicurante per me sapere che nel mondo esiste venezia. forse anche brodksij si sentiva così quando la lasciava per la fine delle vacanze invernali. tornava, constatava che fosse ancora lì, tutta intera, e tornava alle sue fredde lande. così per venti anni, tutti gli inverni. ho dato voce e respiro ai suoi passi oggi. lui non può più vedere le rive, ma le posso guardare io per lui e un giorno qualcuno lo farà per me. il mondo continuerà ad esistere e generazione dopo generazione esseri umani abiteranno venezia. sempre meno forse, ma sempre profondamente religiosi, spero. venezia si può solo amare in modo venerativo: contemplativo e silenzioso, minuscolo, in un certo senso, e adorativo. i suoi tramonti, la sua aria, i suoi marmi macchiati di nero di seppia sbiadito. e ora non solo quello, ma le mie persone, quasi tutte riunite e sparse per i suoi sestieri. tutti che si addormentano la notte tra le stesse pieghe marmose del tempo. tommi, il signor giovanni, teresa, burgio, paolo, pietro, rym, tutti diversi, eppure uguali. si spostano la sera, compiono gli ultimi passi silenziosi e solitari, per poi addormentarsi sotto lo stesso cielo trapuntato, lo stesso preciso fragmento. mi guardo nel riflesso del finestrino del treno, che si affaccia sulla notte ma non la può vedere, e ripenso all’ultima ombra che ho bevuto prima di lasciarla. pioveva già e dicevo cazzate, aneddoti, aneddoti di una vita lontana nel tempo e nel luogo. ero così frastornata a tratti, ma troppo impegnata a parlare per essere frastornata. dovrei spendere fiumi d’inchiostro su quanto fosse tutto com’è sempre stato, come se questa mattina fossi uscita di casa dalla mia vecchia porta e ora stessi andando a padova solo per salutare i miei. è magico su un livello così famigliare che non so spiegarlo. teresa cammina, parla, vive, come sempre. questo giorno è stato un dono, come dice lei. ma la verità è che teresa è un dono. teresa è la mia venezia personale e venezia la mia teresa cittadina. la vita respira in loro e io mi ci ritrovo accanto e la sento, la vedo, la ascolto. la vita liquida e mobile dell’esistenza delle cose. quante volte posso scrivere di essermi sentita a casa prima di sembrare ripetitiva? chissà se anche sara si è sentita così, tornando, lo scorso novembre. chissà se la rassicura. come cambiare città dopo? io voglio andare di là e di qua, ma avere i miei libri fissi lì. vivere in campo sant’agnese. uscire di casa con quell’aria fredda sulle guance e zattere che si sveglia. oggi ne sono convinta più che mai. zattere che sa di domenica. libri letti davanti al mare di giudecca, al sole, generazioni di bambini osservate crescere tra le calli. con i loro monopattini, i loro gessetti colorati. non mi serve altro, davvero, forse solo una delle mie persone nell’appartamento accanto.

Co


undici novembre

mie ultime ore in italia per sei settimane. torno a utrecht e mi manca. venezia è ancora come l’ho lasciata. gli equilibri si sono riassettati a seguito di alcune partenze. alcuni legami si sono stretti o si stanno stringendo, evoluzione di fondamenta lontane. come il legno nel fango sotto le case, che regge tutta la città. sarà sempre così. la città resta immobile, testimone silenziosa di tutte le mattine, di tutti i passi delle persone che conosco che, per ora, rimangono. forse è l’inverno alle porte, forse è la nebbia che qui si prende più spazio, ma le calli mi sembravano più vuote. non solo per i turisti. e mi chiedo se quando tornerò per restare più a lungo questo mi peserà, perché a quel punto se ne saranno andati tutti. ma allora sarà il momento di nuovi sestieri, nuove isole, e lo stesso odore di alghe sottozero (come diceva brodskij). mi rendo conto che le cose che talvolta mi mancano non si possono acquistare così. come con le persone, anche con i posti soffro per la mancanza in situazioni contingenti. mi sveglio la mattina di malumore? vorrei la nebbia. sto cucinando la sera? vorrei farlo per i miei amici lontani. fare scorte strategiche non mi darà necessariamente sollievo quando mi mancheranno là. ora devo fare la valigia.

Co

peregrinazioni lagunari o seconda cronaca di una giornata di trentasei ore o storia di cos’è successo alle Vignole

Oggi sono andata da mia nonna Nadia per finire due acquarelli su cui stiamo lavorando da un po’, ma appena entrata in casa mi sono ritrovata a fare un’enorme pinsa-svuota-dispensa (non ho letteralmente mai visto tante cose dentro una torta in vita mia!) e raccontarle di due artiste che avevo conosciuto lo scorso weekend. Parlandone a lei mi sono ricordata che ero stata assorbita dal marasma del quotidiano, per poi non raccontarvi più la seconda parte della storia. Ormai è passata una settimana dal primo post-racconto e francamente ho messo a rischio di estinzione troppi dettagli, ma cercherò di fare del mio meglio. Nel frattempo di acqua sotto i ponti ne è passata molta e ci sarebbero già nuove parentesi da aprire, nuovi post di blog da scrivere, ed è anche per questo che non mi sono più fatta viva, perché la vita in laguna scorre velocissima da sabato scorso. Sentirete presto cosa bolle in pentola, ma per oggi dovrete accontentarvi di cosa è successo dalle 10 alle 17 di quel giorno.

Ero rimasta a Giorgia, Pietro e me sbarcati alle Vignole. Ad aspettarci c’erano, come forse ricorderete, due signori con un trattore, che stavano passando di lì diretti all’orto e ci hanno aiutato a scaricare tutte le vivande (molte) della coppia signorGiovanni-signoraMargherita. Mentre vino e torte salate passavano di mano in mano, è arrivata una barca-taxi, da cui sono scese una signora e una ragazza. Erano Hélène e Carlotta, così si sono presentate in modo un po’ caotico, stringendo mani a destra e sinistra, con il signor Giovanni che le canzonava per la scelta di raggiungere l’isola in taxi; hanno imboccato con noi le stradine tra i fichi e i rovi. Carlotta aveva un cappellino da baseball che si è impigliato in un cespuglio di rose e ci ha chiesto subito se avessimo intenzione di rimanere a Venezia più a lungo dopo la laurea. Con lei abbiamo conosciuto Sumus.

Sumus (‘siamo’ in latino) è un’organizzazione no-profit fondata da Hélène Molinari, che si muove a Venezia e si è posta l’obiettivo di promuovere un nuovo paradigma di vita e, in questo senso, cercare e dare rilevanza a iniziative ed eventi che siano in linea con le idee che l’hanno fatta nascere (se ti interessa, puoi approfondire qui). Noi cercavamo di capire chi fossero le persone a cui ci stavamo per unire e camminando tempestavamo Carlotta di domande, per capire cosa sapesse Sumus di quel posto e come mai fosse lì. Lei ci era già stata, ma molto tempo prima, quando i lavori erano appena cominciati, per cui ne sapeva tanto quanto noi per certi versi; ma con la sua dichiarata curiosità per le novità, ha aumentato le nostre aspettative per questo luogo sempre più vicino. Questo è stato il primo di una serie di scambi concitati e ha aperto le danze degli incontri sull’isola.

Non ricordo il primo dettaglio che ho registrato dell’orto, ma so che all’entrata c’erano delle persone che stavano preparando una tavolata piena di cibo, tagliando salame e altre torte salate, e siamo passati di lì. Una signora ci ha affidato delle torte di San Martino, da portare in una casetta dopo un boschetto. C’era infatti questo gruppo di alberi in mezzo a cui passava un piccolo sentiero e, seguendolo, portava a una radura, piena di signore, di borse e di pezzi di legno che venivano scartavetrati. Noi abbiamo chiesto come potessimo renderci utili e loro ci hanno dato da incidere castagne. Tutte le volte che ho camminato avanti e indietro nel boschetto quel giorno, le mie scarpe rimbalzavano su un tappeto morbido di foglie e il mio cuore con loro.

Io e Gio eravamo spalla a spalla al lavoro e, una castagna alla volta, le raccontavo la tesi di laurea a cui ho iniziato a lavorare. Una signora che stava scartavetrando lì vicino (non sapevamo ancora per cosa, ma lo avremmo scoperto dieci minuti dopo: quei pezzi di legno sarebbero state le basi di alcune lanterne) ci ha sentite parlare di fiabe e si è avvicinata. E’ saltato fuori un workshop teatrale che aveva fatto a Torino diversi anni prima, in una chiesa sconsacrata, dove erano state messe in scena delle fiabe. Lei si era vestita da mela. Un’altra donna ci aveva sentite, poco più in là, anche lei ne sapeva sull’argomento, perché aveva studiato le fiabe con il metodo steineriano. Mi ha dato dei titoli che potevano tornarmi utili, io sono rimasta così, un po’ sorpresa, un po’ curiosa. Il benvenuto delle Vignole: l’impressione di essere di casa.

Dopo le castagne ci siamo ritrovate ad aiutare proprio lei, la maestra steineriana. Stava preparando due tavoli per dei lavoretti per bambini, per creare lanterne di legno e carta. Mentre misuravamo dei fogli, ci ha parlato della sua esperienza con i bimbi e uno in particolare, Zeno, che segue di recente il pomeriggio ed è una peste, ma non con lei. Abbiamo parliamo di piccoli prodigi, veneziani e non, che abbiamo incontrato facendo le babysitter. Ho un piccolo vuoto da quando eravamo con lei a quando è iniziata la giornata vera e propria, organizzata da Veras, associazione che gestisce i quattro ettari su cui si articola l’orto (sito qui).

Mi vedo poco dopo: prendo la mia analogica e finisco in un grande e disarticolato cerchio. Segue discorso di benvenuto. Il signor Mario presenta sei totem di un artista australiano, che hanno trovato una collocazione sull’isola. Sono tronchi rossi con disegni bianchi, incisi. Sono alle sue spalle. Parla del fatto che l’artista non sia potuto essere presente perché non potevano pagargli il volo, nemmeno quello di sola andata. Qualcuno spiega la giornata, qualcuno dà il benvenuto. Due minuti dopo stiamo facendo un giro illustrativo per i quattro ettari di Veras. Gio, Pie e io finiamo in un gruppo eterogeneo di visitatori. Ci guidano un uomo, Giorgio, che fa il pendolare dalla Sicilia per aiutare a gestire l’orto, e un ragazzo silenzioso (nemmeno così silenzioso in realtà, se gli si facevano le domande giuste). Ci mostrano uno scorcio tra i rovi e le rovine di una casa mezza diroccata, si vede il Lido. Poi arriva il pezzo forte.

Poco più avanti, spostato sulla destra, c’è un albero altissimo. Ci raccontano che per farsi spazio tra i rovi e le piante infestanti, i primi uomini arrivati lì lo avevano preso come punto di riferimento, come meta delle loro esplorazioni. Tutto intorno alla pianta ci sono dei posti per far fare lezione all’aperto ai bambini e sul tronco ci sono le prime prove per il tree climbing, che hanno in programma nei prossimi mesi. Poco dietro l’albero… una foresta di bambù. Qualcuno ha portato una piccola pianta e ora è diventata una faccenda così seria che stanno progettando dei modi per arginarla. Le canne nascondono dei sentieri e veniamo incoraggiati a entrarci. Ci isoliamo da Venezia: è come essere dall’altra parte del mondo. Si scherza sul fatto che dentro potremmo trovarci i visitatori della settimana prima.

L’area successiva riguarda un progetto sulle piante aromatiche: un sentiero che si snoda come un lungo rettile sul prato, su cui è stata piantata qualunque aromatica vi venga in mente (no, quella non vale come aromatica! ). Il gruppo sembra fatto di bambini, perché tutti si mettono ad annusare e toccare foglie. Giorgio, alla guida, parla dei progetti futuri, di una serra e di modi per creare energia in modo sostenibile con dei fondi europei; poi ci spedisce a pranzo. Mentre torniamo indietro, Giorgia chiede a Pietro quante persone collaborino all’orto e lui risponde <100… [[ci guarda, sorride]] anzi 103>. Riassume bene quello che stavamo provando. Euforia allo stato brado.

Durante il pranzo ci ritroviamo a un tavolo con il signor Giovanni, che ci porta un’inglese-che-dobbiamo-proprio-conoscere. Laura, così si chiama, è una veneziana d’adozione, che è arrivata in laguna per vogare e viene a parlare con noi perché vuole sentire la conferma di come Giovanni ci abbia raccattato da un canale la sera prima. Mentre ci scambiamo le nostre storie, arriva un’altra signora, che rimprovera il nostro mentore per non aver ancora provato il suo erbazzone, ce ne offre una fetta e… rivelazione! Si tratta di una sorta di dolce alle erbe di montagna, che avevo visto anche prima sulla tavolata e avevo catalogato (mannaggia a me!) come torta-salata-alle-erbe-simil-spinaci, ma di quest’ultimi ha solo il colore.

Al nostro tavolo ci sono anche dei dottorandi dello Iuav, l’università di architettura e design, mandati alle Vignole da un professore che è nell’associazione. Dopo pranzo iniziamo a ideare con loro un progetto per fine maggio. Scopo di quel sabato di festa infatti, era anche quello di unire persone e ideare attività per l’orto. La nostra idea parte da una suggestione precisa: durante il giro di presentazione, gli ambienti e le varie zone del complesso ci sono state presentate quasi come fossero stanze distinte. Quindi perché non costruire delle porte? Degli archi d’accesso all’una e all’altra. Ne discutiamo con tale Orsetta (sì, esatto), veterana dell’orto, che organizza con noi il workshop e stila una lista con tutti i dettagli. Giorgio continua a passare tra i tavoli per seguire gli sviluppi e portare vino. Oste del giardino. Pietro continua a guardare l’ora e a una certa scappa, perché gli avevano promesso che alle due e un quarto avrebbe potuto aiutare a fare un fuoco. Lo perdiamo di vista per le successive due ore (?) o qualcosa del genere.

Pietro scappando si perde una conversazione allucinante tra Giorgia e Orsetta, di lì a pochi minuti, in cui la prima, dal nulla, chiede alla seconda se sia mai stata a San Marino. Orsetta risponde di sì e Gio la incalza chiedendo se abbia fatto un workshop (sì), durante l’estate passata (sì), di stampe (sì), con il suo amico Francesco (ma certo!). Salta fuori che Gio si ricordava questo suo nome poco comune e Orsetta aveva cercato di convincere questo amico a trasferirsi all’accademia d’arte là. Mandano un selfazzo all’amico in questione. Io basita, ma Giorgia la gestisce alla grande, come se fosse la cosa più naturale del mondo e non fosse per nulla assurdo che lei si ricordasse di una tipa che tre mesi prima aveva tenuto un workshop a San Marino (chapeau Gio, ti adoro).

Mentre ci accordiamo sugli ultimi dettagli di quel progetto, iniziano ad andarsene le prime persone, ma contemporaneamente arrivano le castagne e quelli di Venice calls (qui per il sito). Leonardo e altri ragazzi coinvolti che abbiamo conosciuto erano già stati sull’isola e avevano in mente dei progetti di videomaking, per cui ci siamo scambiati i contatti. Una cosa che mi ha fatto ridere, quando sono arrivati, è stata che tra loro c’era una ragazza con cui avevo fatto una visita a un appartamento a Venezia, prima di cominciare l’università, ma forse a quel punto non mi sarei dovuta stupire più di tanto (altra ora, altri strani intrecci). Ad ogni modo Venice calls è un’altra associazione no-profit, gestita da ragazzi, che si occupa di azioni per promuovere la cultura della solidarietà e coinvolgere i cittadini in esperienze concrete, come pulire spiagge, piantare alberi, donare cibo.

Gio si mette a distribuire altre castagne e chiacchierare con i nuovi arrivati e di lì a poco ritroviamo Pietro, davanti al suo fuoco, circondato da bambini. Il fuoco è come un nido di api, con tutte queste testoline che fanno avanti e indietro, cercando legnetti e confabulando tra loro. C’è una bambina di nome Amelie che vuole fare degli incantesimi sul fumo che si alza denso verso il cielo. C’è un altro bambino che sostiene che l’alloro faccia scoppiettare il fuoco. Ci provano. Funziona. Iniziano a portare un sacco di alloro. La festa dura poco, perché arriva il momento in cui i papà iniziano a dire ai figli di prepararsi per tornare a casa. Anche noi veniamo intercettati e chiamati dalla signora Margherita.

Iniziamo a raccogliere le nostre cose e sembra successo tutto così velocemente. Ci chiedono già di tornare. La strada al contrario sembra più lunga. Sono gli stessi rovi? gli stessi fichi? Io sono distratta, sopraffatta, perdo pezzi di conversazioni camminando tra Giorgia e Giovanni. Quando arriviamo alla barca la marea è così bassa che sarebbe troppo difficile salire per la signora Giuliana, così dobbiamo trovare un ponticciolo più comodo. Mentre fa strane manovre (che per poco non ci fanno andare contro la barca dei ragazzi di Venice calls) il signor Giovanni vuole convincerci ad andare con lui a una mostra di stampe vicino alla Fenice. Non ne discutiamo troppo, partiamo poco dopo con il cielo che già inizia a scurirsi per lasciare spazio alla sera. Probabilmente andremo. Prima, però, dobbiamo tornare. Tra le Vignole e Venezia c’è, solo, una striscia di mare da tagliare. zac.

La storia non finisce qui, arriva presto il terzo e ultimo atto. Ti ringrazio del tempo che hai dedicato a queste parole!

Co

peregrinazioni lagunari o cronaca di un sabato di trentasei ore o storia di come siamo sbarcati alle Vignole

Questo racconto potrebbe essere benissimo una puntata di podcast, ma visto che non ne ho uno (ancora, chissà), e voglio trovare le giuste parole per dare questa storia a ognuno di voi, eccomi riapprodare qui.

Se fosse una puntata di podcast, so per certo che mi piacerebbe iniziare con questa canzone in sottofondo: https://open.spotify.com/track/2pM4Q4QqE7CtGmjfjbDLvE?si=gEoiUYqkSmyKkDAxnfWxgA&utm_source=copy-link e poi probabilmente esagererei e userei tutto l’album da cui è tratta… ma procediamo con ordine!

Solo due giorni fa, incredibile a dirsi, celebravo la vita con l’antico rituale che si tramanda di veneto in veneto secondo cui, ogni giorno, si dovrebbe salutare il sole con un’ombra (versione per chi studia a Venezia: stavo bevendo da Lele). Era il giorno di San Martino (perché questa storia è intrisa di tradizione e di feste in modi imprevedibili e vicini al mio cuore) e stavo già pensando al dolce del cavaliere che avrei diviso con la mia famiglia a cena. Era un doppio giorno di festa, perché in piazza San Marco avevano proclamato qualche centinaio di lauree e la città era gremita di famiglie e amici per fare, appunto, festa. Questo è il motivo principale per cui io e Gio ci siamo sedute dall’altra parte del canale rispetto al bacaro dove avevamo preso da bere, isolate dalla calca dei festeggiamenti.

Eravamo sedute sui quei gradini che scendono in acqua, che a Venezia sono tanto frequenti quanto quelli che vanno in cantina nelle altre città, e mangiavamo del formaggio eccetera. A un certo punto arriva un signore in barca e si mette a fotografare le scale su cui siamo sedute e in generale il livello dell’acqua del canale. Viene spinto in avanti dalla corrente e in un certo senso ci bisticcia per rimanere in un punto centrale e fare le fotografie da una certa angolazione. Fa avanti e indietro per un po’. Attacca bottone sul livello dell’acqua. Si mette a fare una diretta Facebook in cui spiega la bassa marea eccezionale di quella sera. Attacca bottone di nuovo. Ci chiede sostanzialmente cosa studiamo e se abbiamo piani per il giorno dopo. Ci invita alle Vignole.

I ragazzi dall’altro lato del canale guardano un po’ sconcertati, ridacchiando, io che mi sporgo per prendere un quaderno rosso da un perfetto sconosciuto. Anch’io al posto loro avrei guardato la scena allo stesso modo? forse sì. Gli lasciamo le nostre mail e il numero di Gio. Lui ci invita a seguirlo su Facebook, dove c’è la locandina dell’evento. Si legge: Wigman presenta ‘Il giardino che ri_genera la comunità’ ideato e creato da Associazione Veras, isola delle Vignole, Venezia. Non molto altro, accenni al fatto che verrà trasmesso su una radio, tutto un po’ vago.

Noi decidiamo di andare, pur sapendo solo che: lui preparerà uno sformato di salmone, dobbiamo farci trovare in quello stesso posto alle nove e tre quarti, molti veneziani molte signore che fanno molte torte salate vanno su quest’isola dove c’è un orto comune (quest’ultima parte tratta pari pari da un mio vocale in cui racconto l’incontro), lui molto felice di avere nuove giovani leve, promesse castagne per festeggiare San Martino.

Io venerdì sera (da un altro vocale) <come si può rifiutare un invito del genere? voglio dire: hai la barca, le castagne, un’isola mezza deserta>. Torniamo a casa gasate, facendo progetti sul portare a nostra volta una torta salata, fatta da Gio, e siamo scioccate quando qualcuno avanza l’ipotesi che il signor Giovanni, perché così si chiama, potrebbe volerci adescare. Molto serafiche ci convinciamo che sì, potrebbe sequestrarci, ma almeno saremo in due (+ proposta di Gio: buttarci in canale in caso di adescamento, così alla peggio dovremmo solo passare in ospedale nel pomeriggio per l’antitetanica).

Alla fine l’antitetanica è stata meno peggio di quanto non mi aspettassi e le infermiere gentilissime! Okay, okay, avete letto il titolo, siamo arrivate alle Vignole sane e salve! Alle nove e tre quarti eccoci sedute allo stesso posto di poche ore prima e con noi anche Pietro, ‘un amico che ha sentito la storia e vuole venire’. Però passano cinque minuti e del signor Giovanni nessuna traccia, altri cinque, iniziamo a preoccuparci. Ogni barca che spunta nel canale è accolta dai nostri sguardi ansiosi. Facciamo battute su una cosa che aveva detto la sera prima: 1/3 di solito pacca e, inaspettatamente, ci ha paccate lui. Poi spunta ad est. In barca altre due persone: un uomo e una donna di circa la stessa età del signor Giovanni.

Saliamo e ripartiamo subito per andare a prendere altre signore. Capiamo dopo qualche minuto che la donna è sua moglie e l’altro è il fratello di lei, entrambi veneziani. Giovanni invece di presentarci per bene ha tirato fuori una bandiera da issare in poppa. Scivoliamo sul Canal Grande, sotto il Ponte degli Scalzi, tra i vaporetti, le vere strade di Venezia. Poco dopo la bandiera raschierà il marmo di un ponte un po’ troppo basso per lei, con lamentele varie di due gondolieri vicini. Procederemo togliendola momentaneamente.

Arriviamo vicino ai gesuiti, difficile orientarsi per noi in queste strade più basse, che si snodano per la città in modo diverso dalle calli su cui ci muoviamo di solito. In un certo senso sono complementari, ma in un modo tutto loro. Non dividono lo spazio come un marciapiede e una strada, ma più come vene che si diramano nella carne.

Giovanni ormeggia la barca e urla che siamo arrivati. La moglie, Margherita, gli dice di non fare chiasso. Lui invita delle passanti alle Vignole, dà indicazioni sul vaporetto da prendere. Salta giù dalla barca e va a bussare a una porta. Poco dopo ne escono due donne, una dell’età di Giovanni e una nonnina, che si uniscono a noi sulla barca. Nessuno ci presenta per bene e scopriamo solo quando siamo in mare aperto che la donna è un ex collega di Giovanni e la signora con lei è sua madre. La nonnina, seduta in prua con Margherita, si tira su il cappuccio. Il mare aperto punge le guance.

Rimettiamo la bandiera. La barca sobbalza appena mentre punta verso le Vignole. Uno stormo di (internet le chiama) gru cenerine (i nostri compagni di viaggio le chiamano in un altro modo) passa a V sopra di noi. Ci raccontano dell’Arsenale. Di una barca che è stata costruita in un giorno sotto gli occhi del re di Spagna. Di D’annunzio che viveva all’Arsenale e faceva piani di guerra con un giapponese, che gli ha insegnato l’arte degli haiku. L’isola si avvicina e si avvicina e non ce ne accorgiamo nemmeno.

Dapprima il signor Giovanni ci porta davanti alla casa del fondatore dell’orto, circondata da tamerici che si sporgono sull’acqua salata. Lui non c’è, ci avrà preceduto. Inizia la storia dell’orto: un pezzo di terra di quattro ettari che appartiene al demanio marittimo e che si può chiedere in gestione per un certo numero di anni come tanti altri nella laguna. E’ la storia di una terra di rovi, che in un anno di lavoro ha portato a quello che stiamo per vedere. A Vignole non tutti sono entusiasti della cosa, due tizi si sono opposti alla regolamentazione della strada che dalla fermata del vaporetto porta all’entroterra. Tutto si è risolto con due ponti: uno per ogni corrente di pensiero.

Entriamo nel canale che divide l’isola da nord a sud. Incontriamo due dell’orto su un trattore Goldoni: uno guida e l’altro è attaccato dietro in modo precario, in mezzo a delle casse. Salutano entusiasti. Si fermano accanto a dove decidiamo di attraccare noi e ci aiutano a scaricare. Così sbarchiamo alle Vignole.

Co

inverno 2019, campo dei Tolentini, prospettiva dalle scale dove eravamo sedute io e Gio

scherzavo, (forse) è l’inverno!

dopo aver scritto quella smielata dedica d’amore all’autunno circa un mese fa, penso di poter dire che tutte le cose che ho ammirato allora, si sono consumate alla velocità con cui gli alberi si sono spogliati delle foglie. un mese fa immaginavo che a questo punto il mio entusiasmo sarebbe scemato, invece ora, con i piedi nella prima casella dell’avvento, non è cambiato nulla, sono allo stesso modo entusiasta. e l’autunno? c’è qualcosa che non va nel mio entusiasmo per le stagioni? perché ci dovrebbe essere qualcosa che non va? perché di solito siamo indifferenti al passaggio tra le stagioni e ora mi interessa così tanto? sarà così anche per l’arrivo della primavera (aka stagione che non mi ha mai entusiasmata)? se sarò entusiasta anche per la primavera dovrei farmi vedere? il prossimo passo sarà comprare incenso e una di quelle luci di sale rosa da mettere sul comodino? non so, sento che potrei andare avanti e scrivere tutte le mie domande esistenziali, ma vorrei parlarvi dell’inverno [ma soprattutto: riuscirei a fermarmi a una certa? perché francamente sto dando un taglio ora per non scrivere un’intera pagina di blog solo di domande (che sarebbe stra una figata come pagina di blog, onestamente)].

dicevo: inverno alle porte e io inaspettatamente entusiasta… non che pensassi di non esserlo, ma pensavo che con nessun’altra stagione avrei superato il mio entusiasmo autunnale. di fatto non l’ho superato, sono in un certo modo allo stesso livello, o forse una parte di me non vuole far vincere né l’una né l’altra… che non è poi diverso.

mi sento come quando stai camminando e all’improvviso vedi una persona che non incrociavi da un po’ e che non ti aspettavi di vedere. parte l’automatica serie di come-va-tutto-bene-tu-invece-come-stai-bene-bene [tutt’al più uno dei due accenna che va così così, perché negli ultimi esami del sangue aveva il ferro basso, o perché ha un esame universitario domani (in qualche modo gli esami c’entrano sempre) ma insomma, tutto si sistemerà] e di solito poi arriva puntuale il ma-vediamoci-ogni-tanto-se-sei-nei-paraggi-mi-farebbe-piacere-anche-a-me-dai-organizziamo e sappiamo come finisce. prima di scambiarvi inutili convenevoli però, c’è un momento in cui sei davvero felice e vorresti davvero sapere come sta e per un istante pensi a quel momento, di quattro o cinque anni prima, in cui guardando quello stesso volto sapevi tutto quello che gli passava nella testa. ora invece sembra una persona diversa, con quegli stessi tratti che hai in mente, ma la pelle leggermente più giallognola, un nuovo paio di occhiali, gli occhi più chiari di quanto non ricordassi, i capelli portati più corti sulle spalle, ed entrambi siete, irrimediabilmente, molto più vicini a quando calerà su di voi un buio eterno, di quanto non lo foste quattro o cinque anni fa.

non so come mai, ma oggi continuo a divagare dal tema con una facilità allarmante, scusatemi… posso dare la colpa al troppo David Foster Wallace che sto leggendo? lui e le sue note di merda che amo. ad ogni modo dicevo: in questo momento mi sento come quando vedi da lontano quella persona e in un attimo hai un flash dal passato. proprio quell’esatto momento in cui ti ricordi quanto eri felice allora. quanto è bello l’inverno, onestamente, e quanto lo aspettavamo. a novembre alle superiori erano tutti già pieni-fino-a-qui e iniziavano a programmare il capodanno con gli amici, con la scusa che poi si rischiava di muoversi troppo tardi. alle medie tutti aspettavano solo che aprisse la pista di pattinaggio in centro per passare interi pomeriggi a cadere e ridere sul ghiaccio. alle elementari non si faceva altro che paciolare tutto il giorno dei regali che si sarebbero chiesti nella letterina di Santa Lucia e di come si sarebbe riusciti finalmente a incastrarla, quando sarebbe arrivata a casa per la consegna.

la cosa che mi fa ridere è che Emma me l’aveva detto… non so come ma aveva predetto che sarei finita a fare liste di motivi e ricordi per cui amo questa o quell’altra stagione. il suo era, in realtà, un suggerimento, probabilmente perché era preoccupata e voleva porre fine alla mia folle ricerca di una risposta a una domanda così banale come ‘qual è la tua stagione preferita?’. maledetto il primo che per fare conversazione ha articolato questa parole. il primo sapiens che, mentre aspettava una preda nascosto dietro una roccia, voleva spezzare il silenzio imbarazzato tra lui e l’altro sapiens che era finito in coppia con lui dietro a quella roccia e ha pensato bene di evitare osservazioni sul tempo contingente della serie oggi-fa-più-freddo-di-ieri (già banali all’epoca dei sapiens) e chiedere più generalmente quale tempo l’altro preferisse. immaginatevi l’altro, spiazzatissimo, che era abituato già a rispondere in modo automatico eh-sì-più-freddo e invece, con lo sguardo perso all’orizzonte, ha iniziato a vagare con la mente e si è ricordato di quando aveva catturato la sua prima preda in inverno, di quanto fiero si fosse sentito, spavaldo correndo tra gli alberi con la neve che faceva quella sorta di scricchiolio che fa ancora adesso quando la calpesti ed è fresca, correva con un vento freddo che gli pungeva gli zigomi e i polmoni che gli facevano male, come ghiacciati dall’aria… okay, abbiamo capito che oggi la parola d’ordine è divagare (a parte che è palese che, perso nei suoi pensieri, si sia perso anche la preda e abbia litigato con l’altro sapiens perché, infame, non si fosse limitato a un’osservazione sul tempo contingente).

ad ogni modo non è ancora inverno, o meglio, non siamo ancora nel pieno dell’inverno, quindi credo di dover aspettare prima di dare risposte definitive. alla fine mi toccherà fare un’altra lista di motivi per cui ci sta (anche) l’inverno e poi si vedrà… vi tengo aggiornati comunque

C

ps. quando ho cominciato a riflettere su questa cosa delle stagioni ho fatto una lista di autori che hanno lavorato con questo tema. è ancora all’inizio, ma ogni contributo è ben accetto per ampliare la riflessione… la trovi qui

riflessione estemporanea del tutto temporanea

dalla fine dell’estate rifletto tantissimo sulle stagioni e mi sono accorta, più di ogni altro anno, del pigro progredire dell’autunno. ho iniziato a notare i cicli della luna e quanto fossero veloci, quante lune piene si susseguono in un mese, ecc.. probabilmente è perché ho meno cose da fare degli scorsi anni, meno posti in cui essere e andare. alle superiori avevo una routine abbastanza consolidata, molte piccole scadenze da rispettare e vivevo un anno dopo l’altro abbastanza passivamente dal punto di vista delle stagioni. ovviamente mi accorgevo del passaggio da una all’altra, ma più che altro credo per il cambio di temperatura: perché per andare a scuola dovevo prendere una giacca piuttosto che un’altra, perché dovevo ricordarmi la sciarpa, perché avevo freddo al naso e ai piedi.

qualcosa è cambiato. forse è cambiato anche volontariamente, perché mi ricordo che dal nulla quest’estate mi sono chiesta quale fosse la mia stagione preferita e volevo rispondermi in modo serio. ho fatto di quella domanda una sorta di quesito fondamentale, da motivare con delle serie considerazioni circa me e l’ambiente intorno a me e come mi faceva sentire. istintivamente mi veniva da rispondere ‘autunno‘, ma senza delle motivazioni, più per dei ricordi. ricordi come il viale davanti a scuola alle elementari, pieno di grandi foglie secche in cui camminavo da piccola, o di una mattina di pioggia e di tuoni in cui alcuni bambini si nascondevano sotto dei tavoli in palestra e la maestra ci ha fatto correre fino all’ingresso della scuola in fila per due. nella mia testa sono tutti ricordi vicini, che rispondono istintivamente, ma sento che non si tratta solo di quelli.

lo sento, ma non so dirlo. per questo l’altro ieri ho chiesto a mia nonna Nadia quale fosse la sua stagione preferita e perché. ho scelto lei perché ha vissuto molte più stagioni di me e volevo vedere come si raccapezzava.

ovviamente si raccapezza molto meglio: sapeva esattamente il motivo ed è partita in quarta con la spiegazione. mi ha detto che la sua preferita è molto probabilmente la primavera, perché mantiene le promesse. che promesse? nessuno ci dà la certezza che i fiori e le foglie rinascano dopo l’inverno, è una cosa risaputa e scontata, noi tutti la diamo per sicura, tanto quanto sappiamo che il sole risorgerà ogni mattina, ma il fatto che si ripeta ogni anno non sminuisce il fatto in sé, come facciamo noi. la primavera arriva sempre, ogni anno, portando la rinascita di tutte le piante e il risveglio degli animali in letargo e il ritorno degli uccelli migrati altrove. il fatto che questa risposta fosse così semplice per lei, così a portata di mano, mi ha lasciato un po’ così, a riflettere.

da quel momento mi chiedo perché sia così facile notare stormi e stormi lasciare le città a novembre e contemporaneamente quanto sia strano che a marzo ogni posto si ripopoli silenziosamente, come se ogni uccello tornasse da solo, senza voler dare troppo nell’occhio.

anche se questo dettaglio degli stormi fa sembrare l’autunno molto plateale, così come lo fanno tutti i colori che lo caratterizzano, non credo che l’autunno sia la stagione più ‘estroversa‘. tutto il contrario: è la stagione del richiudersi in se stessi dopo 500 giorni d’estate (se l’hai capita, occhiolino). per lo meno io ho sentito proprio questo passaggio da voler uscire tutti i giorni, a ritirarmi piano piano in casa e trovare delle scuse per rimanerci. come se stessi andando un po’ anche io in letargo, quelle poche volte in cui questo autunno sono andata a lezione e fatto cose da universitaria, le ho inizialmente vissute con una sorta di leggero fastidio, di interruzione indolente dei miei pomeriggi in solitaria a leggere e bere Chai.

poi in realtà in mezzo ai miei amici a Venezia o insieme ad Em al Salone del libro a Torino (in una fuga di un giorno che rimarrà per sempre nel mio cuore) ero felice al cento per cento e avrò pensato al Chai e ai libri al massimo due volte (con Em nemmeno una!)…che poi non è vero che l’autunno mi convince a stare a casa tutto il tempo, perché c’è un momento, quando inizia a fare davvero freddo e le foglie sono già tutte rosse e se non sono già cadute sono a un soffio di vento dal farlo, c’è quel momento in cui io voglio uscire e vedere tutti gli alberi e magari avere anche un po’ di quella pioggerellina sottile e stupida che mi fa diventare i capelli tutti crespi. quello è di solito il momento in cui le persone troppo entusiaste circa il Natale iniziano a mettere le lucine fuori e quando passi in macchina le guardi e sei felice e vorresti averle tirate già fuori anche tu, ma ti limiti a sospirare e dire che è troppo presto.

ad ogni modo non sono ancora capace di rielaborare una spiegazione seria e sensata come quella della nonna, per cui mi limito a fare una lista di molti e troppi (e troppo stupidi) motivi per cui l’autunno è il massimo, che aggiornerò in questi ultimi giorni di autunno. in più voglio rilanciarvi la domanda: qual è la vostra stagione preferita e perché? come dice Fulminacci <Credimi più ci pensi più ti allontanerai/ credimi basta poco>.

C

ps. quando ho cominciato a riflettere su questa cosa delle stagioni ho fatto una lista di autori che hanno lavorato con questo tema. è ancora all’inizio, ma ogni contributo è ben accetto per ampliare la riflessione… la trovi qui