Antonioni e la trilogia dell’incomunicabilità

Cosa cerchiamo negli altri? La trilogia dell’incomunicabilità mi ha dato come una spinta atavica verso queste righe. Riusciamo a vedere davvero chi abbiamo davanti? Riusciamo ad essere visti? Tarkovsky analizzando il finale de La Notte (1961) parla di due persone che non provano più nulla l’una per l’altra, che hanno perso tutta l’attrazione e i sentimenti di un tempo, ciononostante hanno come una sensazione di vicinanza, un’appartenenza fisica e spirituale che non riescono a lasciarsi alle spalle. I due protagonisti stanno come annegando e si tengono abbracciati per salvarsi reciprocamente. Non hanno più nulla da dirsi, ma rimangono seduti uno accanto all’altra e quando lei legge la lettera, lui non riconosce quelle parole, che ha scritto molto tempo prima, e le chiede di chi siano. È una scena inclemente. È una trilogia inclemente, disillusa, rassegnata.

Il primo lavoro è L’Avventura (1960). Monica Vitti, figura al contempo incurante e disarmante, cerca un’amica che si è persa. I capelli scompigliati dal vento e una linea nera che le delinea decisa gli occhi. Vaga per un’isola deserta, una minuscola isola del Mediterraneo. Cerca in ogni angolo, in ogni spelonca, ma l’amica sembra sparita nel nulla. Erano partire insieme con un gruppo di amici, qualche tuffo in mare e partite a carte, ma durante un’escursione lei ha litigato con il fidanzato e si è volatilizzata. Salgono e scendono tra gli scogli. Non la trovano. Non si trova, è stata come inghiottita dall’isola, lasciando lei e il fidanzato sulle sue tracce. Monica perlustra tutta l’isola, testarda, vuole vederci chiaro, ma non trova che una cosa: una passione travolgente per lui e uno sconvolgente senso di colpa. I due si guardano e si bramano nel silenzio di un lutto che non è nemmeno chiaro se sia tale o no. Si intrecciano sguardi e parole, tutto si confonde. La verità sulla sparizione, i sentimenti che si fanno spazio tra loro, la confusione per come si possa dimenticare e ardere. Solo lei prova tutto questo? Lui sembra pronto a lanciarsi senza remore, senza risentimenti.

Le donne di tutta la trilogia sono isolate nei loro pensieri, nei loro sentimenti, nei loro desideri. Gli uomini che hanno accanto bruciano per loro un attimo, per poi rivolgersi altrove, non riescono mai a creare un legame diverso. Non riescono a capirsi, a guardarsi davvero, a parlare, ma nessuno ha colpa di questo, sembra una situazione inevitabile. Camminano l’uno accanto all’altra e non sanno cosa stia pensando, l’altro. Si siedono vicini, ma sono irrimediabilmente distanti. Monica Vitti è il minimo comune denominatore di questi tre film, insieme ad Antonioni, e presta il suo volto e i suoi sguardi per restituirci tutto quello che potrebbe essere, ma che non è, che non si spiega, non si scioglie. Gli uomini corrono dietro i loro desideri e alle donne non rimane che guardarli allontanarsi. Quando si trovano, hanno due conversazioni in parallelo, non si ascoltano, guardano il mondo con i loro occhi e solo quelli.

Il secondo lavoro è La Notte (1961). Un senso di precarietà si avvinghia allo spettatore fin da subito, quando i due protagonisti, Marcello Mastroianni e Jeanne Moreau, vanno a trovare in ospedale un loro amico scrittore che sta morendo. Mastroianni, anch’egli scrittore, ha una presentazione proprio quel pomeriggio e non sembra turbato dalla visita di quella mattina, lo vediamo muoversi sicuro tra la folla. Moreau, al contrario, lascia l’evento (in un modo, per inciso, molto simile a come accade in The worst person in the world di Joaquim Trier) e inizia una serie di peregrinazioni cittadine senza meta. Lui non sa dove cercarla, poi lei lo chiama, si ritrovano, ma sono irrimediabilmente distanti. Lo sono di partenza, quella mattina in ospedale… non sembrano una coppia. Quella stessa sera lei gli chiede di passarle un asciugamano dopo un bagno e lui non la guarda nemmeno. Lei si tormenta, ma non dice nulla. L’apoteosi della parabola tra i due accade a una festa, quella notte. Entrambi si lanciano in avventure deludenti, per poi ritrovarsi di nuovo alle soglie del giorno, non avendo nulla da dirsi, ma scegliendosi ancora, due amanti febbricitanti, che hanno imparato solo quello, a scegliersi ancora e ancora, nonostante tutta la distanza che li separa.

C’è stato un momento in cui le cose sono andate diversamente? Il film non ce lo mostra. Non sappiamo se quella distanza incolmabile è, come nel film precedente, frutto di due posizioni diverse in partenza. La lettera che Moreau legge alla fine del film fa riflettere sull’intensità dei sentimenti che possiamo provare, sul grado di connessione che possiamo sentire davanti a un’altra persona, ma si confronta con quell’enorme vuoto tra i personaggi, tutto quello che è rimasto alla fine della notte.

L’ultimo lavoro è L’Eclisse (1962). Rispetto agli altri due film ci sono molti più elementi in linea con Blow-up (1969), come un’attenzione crescente verso lo spazio urbano e il suo ruolo nella storia. L’incomunicabilità qui prende spazio tra i personaggi in modo diverso, è un tema che attraversa il dialogo non solo tra i due protagonisti, ma anche tra tutti coloro che entrano in relazione con loro. Questa trilogia prende la forma di Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? Un senso di isolamento sempre più marcato si distende tra un film e l’altro. Domande senza risposte, parole scambiate come tra persone che parlano lingue diverse. Cosa rimane alla fine della storia? Un silenzio.

Tutti e tre i film si trovano su You Tube. Spero che queste mie elucubrazioni possano giovare a qualcuno. Buona visione 🙂

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