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Antonioni e la trilogia dell’incomunicabilità

Cosa cerchiamo negli altri? La trilogia dell’incomunicabilità mi ha dato come una spinta atavica verso queste righe. Riusciamo a vedere davvero chi abbiamo davanti? Riusciamo ad essere visti? Tarkovsky analizzando il finale de La Notte (1961) parla di due persone che non provano più nulla l’una per l’altra, che hanno perso tutta l’attrazione e i sentimenti di un tempo, ciononostante hanno come una sensazione di vicinanza, un’appartenenza fisica e spirituale che non riescono a lasciarsi alle spalle. I due protagonisti stanno come annegando e si tengono abbracciati per salvarsi reciprocamente. Non hanno più nulla da dirsi, ma rimangono seduti uno accanto all’altra e quando lei legge la lettera, lui non riconosce quelle parole, che ha scritto molto tempo prima, e le chiede di chi siano. È una scena inclemente. È una trilogia inclemente, disillusa, rassegnata.

Il primo lavoro è L’Avventura (1960). Monica Vitti, figura al contempo incurante e disarmante, cerca un’amica che si è persa. I capelli scompigliati dal vento e una linea nera che le delinea decisa gli occhi. Vaga per un’isola deserta, una minuscola isola del Mediterraneo. Cerca in ogni angolo, in ogni spelonca, ma l’amica sembra sparita nel nulla. Erano partire insieme con un gruppo di amici, qualche tuffo in mare e partite a carte, ma durante un’escursione lei ha litigato con il fidanzato e si è volatilizzata. Salgono e scendono tra gli scogli. Non la trovano. Non si trova, è stata come inghiottita dall’isola, lasciando lei e il fidanzato sulle sue tracce. Monica perlustra tutta l’isola, testarda, vuole vederci chiaro, ma non trova che una cosa: una passione travolgente per lui e uno sconvolgente senso di colpa. I due si guardano e si bramano nel silenzio di un lutto che non è nemmeno chiaro se sia tale o no. Si intrecciano sguardi e parole, tutto si confonde. La verità sulla sparizione, i sentimenti che si fanno spazio tra loro, la confusione per come si possa dimenticare e ardere. Solo lei prova tutto questo? Lui sembra pronto a lanciarsi senza remore, senza risentimenti.

Le donne di tutta la trilogia sono isolate nei loro pensieri, nei loro sentimenti, nei loro desideri. Gli uomini che hanno accanto bruciano per loro un attimo, per poi rivolgersi altrove, non riescono mai a creare un legame diverso. Non riescono a capirsi, a guardarsi davvero, a parlare, ma nessuno ha colpa di questo, sembra una situazione inevitabile. Camminano l’uno accanto all’altra e non sanno cosa stia pensando, l’altro. Si siedono vicini, ma sono irrimediabilmente distanti. Monica Vitti è il minimo comune denominatore di questi tre film, insieme ad Antonioni, e presta il suo volto e i suoi sguardi per restituirci tutto quello che potrebbe essere, ma che non è, che non si spiega, non si scioglie. Gli uomini corrono dietro i loro desideri e alle donne non rimane che guardarli allontanarsi. Quando si trovano, hanno due conversazioni in parallelo, non si ascoltano, guardano il mondo con i loro occhi e solo quelli.

Il secondo lavoro è La Notte (1961). Un senso di precarietà si avvinghia allo spettatore fin da subito, quando i due protagonisti, Marcello Mastroianni e Jeanne Moreau, vanno a trovare in ospedale un loro amico scrittore che sta morendo. Mastroianni, anch’egli scrittore, ha una presentazione proprio quel pomeriggio e non sembra turbato dalla visita di quella mattina, lo vediamo muoversi sicuro tra la folla. Moreau, al contrario, lascia l’evento (in un modo, per inciso, molto simile a come accade in The worst person in the world di Joaquim Trier) e inizia una serie di peregrinazioni cittadine senza meta. Lui non sa dove cercarla, poi lei lo chiama, si ritrovano, ma sono irrimediabilmente distanti. Lo sono di partenza, quella mattina in ospedale… non sembrano una coppia. Quella stessa sera lei gli chiede di passarle un asciugamano dopo un bagno e lui non la guarda nemmeno. Lei si tormenta, ma non dice nulla. L’apoteosi della parabola tra i due accade a una festa, quella notte. Entrambi si lanciano in avventure deludenti, per poi ritrovarsi di nuovo alle soglie del giorno, non avendo nulla da dirsi, ma scegliendosi ancora, due amanti febbricitanti, che hanno imparato solo quello, a scegliersi ancora e ancora, nonostante tutta la distanza che li separa.

C’è stato un momento in cui le cose sono andate diversamente? Il film non ce lo mostra. Non sappiamo se quella distanza incolmabile è, come nel film precedente, frutto di due posizioni diverse in partenza. La lettera che Moreau legge alla fine del film fa riflettere sull’intensità dei sentimenti che possiamo provare, sul grado di connessione che possiamo sentire davanti a un’altra persona, ma si confronta con quell’enorme vuoto tra i personaggi, tutto quello che è rimasto alla fine della notte.

L’ultimo lavoro è L’Eclisse (1962). Rispetto agli altri due film ci sono molti più elementi in linea con Blow-up (1969), come un’attenzione crescente verso lo spazio urbano e il suo ruolo nella storia. L’incomunicabilità qui prende spazio tra i personaggi in modo diverso, è un tema che attraversa il dialogo non solo tra i due protagonisti, ma anche tra tutti coloro che entrano in relazione con loro. Questa trilogia prende la forma di Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? Un senso di isolamento sempre più marcato si distende tra un film e l’altro. Domande senza risposte, parole scambiate come tra persone che parlano lingue diverse. Cosa rimane alla fine della storia? Un silenzio.

Tutti e tre i film si trovano su You Tube. Spero che queste mie elucubrazioni possano giovare a qualcuno. Buona visione 🙂

fight club – riflessione

Ieri sera ho rivisto Fight Club di Fincher e devo fissare delle idee, per cui rompo momentaneamente il silenzio sul sito causa lavoro-Natale-sessione, perché devo togliermele dalla testa o non riuscirò a studiare linguistica. Premetto che sono mie riflessioni sul film, quindi non per forza come Fincher o Palahniuk lo abbiano concepito.

Il protagonista è diviso in due: da una parte c’è il Narratore o Edward Norton, che chiamerò forma conforme, dall’altra, Tyler o Brad Pitt, forma difforme. La scelta dei due termini è presto spiegata: all’inizio si vede solo la parte conforme dell’uomo, una persona con un lavoro, una casa e una vita un po’ solitaria. Il lavoro rientra nel ramo assicurativo di una grande compagnia automobilistica, per cui lui deve applicare una formula data, per calcolare quanto sia conveniente ritirare un certo modello di auto dal mercato, nel momento in cui sia difettoso. La forma conforme fa quello che ci si aspetta da lui, senza opporsi ai suoi datori di lavoro e più in generale alla società, ma ha un problema: non riesce a dormire. Sia di giorno che di notte non è ‘mai completamente sveglio e mai completamente addormentato’, in uno stato di perenne insonnia.

Questa sua perenne insonnia riflette il suo essere conformista/passivo a un livello tale per cui non ha più un ritmo di vita suo, scandito dal sonno (bisogno biologico dell’individuo).

La forma conforme riesce a recuperare il sonno, iniziando a partecipare a dei gruppi di sostegno per persone con malattie incurabili. In questi gruppi, che frequenta giornalmente, entra in contatto con le sofferenze più profonde e la morte, limitandosi a partecipare in silenzio (cosa che spesso viene percepita dagli altri come una sofferenza indicibile). Di fatto ancora una volta rimane passivo, trova come uno stato contemplativo che gli permette di trovare un po’ di pace e tornare a dormire.

Tutto va alla grande, se non fosse che arriva Marla, un’altra imbrogliona dei gruppi di sostegno, che partecipa senza problemi anche alla serata per gli uomini con il tumore ai testicoli, la più produttiva per il Narratore in termini di sonno. Lui la odia, perché è uno specchio in cui si riflettono le sue bugie, ma allo stesso tempo non può che esserne affascinato, chiedendosi come mai anche lei sia lì. Quando si conoscono Marla è sfuggente e del tutto disinteressata al Narratore, mentre in seguito i ruoli si ribalteranno.

Il ribaltamento avviene per l’arrivo della forma difforme, che nella prima parte del film è come un glitch che compare sullo schermo all’improvviso, per un istante. Più la parte conforme soffre, più la parte difforme si materializza, dando vita al lato più violento dell’uomo, che preferisce vivere il dolore piuttosto che contemplarlo. Tyler lavora in proprio, vive in una casa squallida, in modo illegale, non ha paura di avvicinare Marla e, in generale, ha un’enorme libertà di azione.

Il passaggio tra le due forme avviene su un aereo e una volta atterrati non è più Edward Norton al comando dell’individuo, ma Brad Pitt. La testa dell’individuo, per dare un senso al cambiamento, si convince che si tratta di una collaborazione tra le parti, in cui gli individui hanno lo stesso peso e creano insieme il Fight Club. Anche quello nasce il giorno in cui c’è il passaggio: se Tyler libera l’individuo mentalmente, il Club lo libera fisicamente. Il Fight Club rappresenta un ‘alter ego’ del gruppo di sostegno per il tumore ai testicoli: il primo ha un modello di mascolinità estrema, il secondo, al contrario, mette in dubbio la mascolinità.

La prima regola del Fight Club è che non si parla del Fight Club e l’unica regola che Tyler pone al Narratore per vivere in casa sua è non rivelare mai a Marla nulla di lui. In pratica le due ‘creazioni’ messe in atto dall’individuo per sopravvivere sono sotto la regola del silenzio, che ne tutela l’irregolarità. L’uomo mantiene anche le apparenze di una vita normale di giorno, coltivando le sue aspirazioni ‘fuorilegge’ di notte. Il risultato è che piano piano la forma conforme inizia a sbiadire, andando nel panico.

Il panico è palese in due momenti che coinvolgono altri due membri del Fight Club: Bob, preferito della forma conforme, e Faccia d’Angelo, preferito della forma difforme. La forma conforme rimane scossa dalla morte di Bob, per colpa del Progetto Mayhem, evoluzione estrema del Fight Club che priva gli individui del nome e li spinge ad azioni contro la società. In seguito la stessa forma conforme, nel panico in quanto sempre più esclusa dai piani del Club, sostituita da Faccia d’Angelo, lo picchia brutalmente a un ritrovo, lasciandolo in fin di vita.

Oltre a mostrare il panico, i due episodi mettono anche in luce il fatto che le due forme appartengano alla stessa persona. Tyler distrugge Bob e quello che rappresentava, così come il Narratore distrugge Faccia d’Angelo perché <era una cosa bella>.

In ultima analisi la crisi nella crisi, cioè il panico della forma conforme nel momento in cui la forma difforme la sta completamente bloccando ed escludendo dalla vita dell’individuo, porta il Narratore a scoprire che Tyler è lui stesso. Da questa scoperta l’individuo teme innanzitutto per l’obiettivo finale del Progetto Mayhem, ovvero la distruzione notturna di tutte le banche per annullare i debiti e rendere liberi tutti gli uomini, ma soprattutto teme per Marla.

Potrei scrivere un pezzo solo su di lei e la sua visione delle cose, ma questo testo è già lungo così, quindi mi limito alla conclusione dal punto di vista di lui. Marla è la soluzione. La soluzione che l’uomo aveva già trovato, ma non aveva il coraggio di seguire. Forse per il carattere distruttivo che in Marla era molto esplicito, mentre in lui ancora nascosto. Con l’arrivo di Tyler, l’individuo ha la possibilità di abbattere il muro che lei aveva alzato, ma allo stesso tempo la rilega a una relazione strettamente sessuale, sostenendo di non essere interessato a lei più di così, rifuggendo un coinvolgimento ulteriore che lei invece ricerca.

Visto che alla fine stiamo parlando di un uomo solo, non è difficile capire che anche Tyler si ritrovi a temere Marla, nell’ottica in cui lei può ancora una volta mostrare l’inganno con cui lui cerca di sopravvivere. Ancora una volta si ripresenta il meccanismo di allontanarla, ma nel finale è lei la soluzione. Nella confusione, nel marasma, nel progetto Mayhem che si compie, i palazzi che esplodono, la parte conforme che si spara in testa pur di liberarsi della parte difforme, in tutto il disordine in cui l’uomo sconvolto e confuso si ritrova, Marla è lì. Alla fine ci sono solo loro, per mano, tra i frantumi del mondo. Mi piace credere che Palahniuk e Fincher la vedano così: se tutto è caos, ci salva solo trovare qualcuno da tenere per mano.

Co

DAGUERRéOTYPES -di AGNèS VARDA, 1975

Già il titolo di questo lavoro è genuinamente geniale. E’ genuinamente geniale perché ‘dagherròtipo’ è un termine che indica un processo fotografico che riproduce un’immagine su un supporto in argento o rame argentato sensibilizzato, ma nel caso specifico di questo film allude anche alle persone che Agnès decide di ritrarre, i negozianti e abitanti di Rue Daguerre a Parigi.

C’è da chiedersi se l’abbia fatto di proposito, e no, è un caso, perché quella è la via in cui viveva e quello era il suo vicinato. Agnes qui è sì regista, ma più che altro attenta vicina. Una vicina che osserva con affetto le persone che tutti i giorni si alzano e aprono i loro piccoli negozi, per un lasso di tempo che trova il suo equilibrio tra più o meno sporadiche visite della clientela e momenti di quiete, se non addirittura solitudine, completa. Sarà proprio per questa solitudine che i commercianti della sua via sono tutti in coppia: mariti e mogli che condividono un mestiere e, di fatto, tutto il loro tempo.

Questo film è un monologo di Agnès Varda sulle persone che in qualche modo le piacciono. C’è l’anziana proprietaria de Le Chardon Blue, un po’ stanca e un po’ smemorata, e c’è una portinaia alle soglie della pensione che rivendica il suo ruolo di guardiana. Agnès un po’ si nasconde nei loro spazi, un po’ li mette in posa e li intervista con poche domande precise, poi monta tutto con estrema accuratezza (in ben quattro mesi!).

Mettendoli in posa, i negozianti diventano ritratti sospesi nel tempo, ma qualche piccolo dettaglio si muove, c’è l’accenno di un gesto e ci sono i respiri: sono dagherrotipi vivi!

Sono riprese che sanno di inverno, quando le strade sono bagnate e le persone si stringono nei cappotti perché tira un po’ di vento. Sanno anche di lacca di parrucchiera, quella vecchia lacca che si usava ancora quando eravamo piccole, e sanno di pane appena sfornato e di legno riverniciato. Gli ambienti sono così piccoli che rimaniamo quasi incastrati insieme ai clienti che comprano bottoni e rossetti, pagano bistecche e baguette, chiedono di aggiustare orologi e camicie. Ci ritroviamo in questi piccoli spazi commerciali, come se fosse anche il nostro quartiere, come se sbirciassimo anche noi cosa succede in strada mentre siamo in fila dal panettiere.

L’idea di Agnes è che i documentari siano tutti soggettivi, che non esista il cinéma-vérité. Questo non significa che il soggetto sia Agnès, ma che l’interpretazione sia soggettiva, cioè che questo sia un film di Varda sugli altri visti da lei. Il soggetto è la quotidianità di Rue Daguerre, a partire da Le Chardon Bleu, che aveva colpito la regista per le sue vetrine immutabili, in cui la troupe si intrufola seguendo la figlia della regista, che è una cliente affezionata dei due vecchietti proprietari.

Loro sono i primi e gli ultimi su cui la camera si sofferma, in un discreto lavoro di archiviazione quasi, verso cui è impossibile non fare un confronto con l’oggi. Si tratta di ritratti o forse di reportage o forse di omaggio, nemmeno Agnès ne è sicura, sta di fatto che i loro sguardi, i loro gesti, le loro parole, si sono conservati fino a noi, e ci ospitano tra loro, come se fossimo nati e cresciuti lì, in una sorta di piccolo villaggio dentro la città.

Sarei rimasta ore e ore a guardare queste persone, che solo poco prima non avevo mai visto e in quel momento mi apparivano così familiari. Ogni loro gesto era usuale e lento, il pane pesato e infornato, la carne scelta e tagliata, per me erano anche gesti pieni di una vita che non ho mai visto, che non esiste più.

Costanza

Questi ‘Daguerre-tipi’ colorati, queste immagini all’antica, il ritratto collettivo e quasi stereotipato di alcuni uomini e donne di Rue Daguerre, queste immagini e questi suoni ansiosi di rimanere discreti, di fronte al silenzio grigio che circonda la signora Chardon Bleu… formano tutti insieme un reportage? Un omaggio? Un saggio? Un rimpianto? Un rimprovero? Un approccio? A d’ogni modo è un film che io firmo come vicina: ‘Daguerre-tipa’ Agnès!

FONTI: ‘Alla scoperta di Agnès Varda in 5 film’ della cineteca di Bologna, che a sua volta ha come fonti l’intervista di Mireille Amiel in ‘Cinema 75’ n.204, dicembre 1975 + intervista di Andrée Tournès in ‘Jeune Cinéma’ n.140, febbraio 1982 + ‘Cicim’ n.4, febbraio 1983 +’Séquences’ n.126, ottobre 1986 + intervista di Colette Milon in ‘Cinémaction’ n.41, 1987 + ‘Varda par Agnès’, E’ditions Cahiers du cinéma, Parigi 1994 + Claude Manceron in ‘Télérama’ n1404, 8 dicembre 1976 + Francoise Audé in ‘Positif’ n.218, maggio 1979

definizione di un dagherròtipo https://treccani.it/enciclopedia/dagherrotipo/

analisi del film ‘Emma.’ (2020, Autumn de Wilde)

‘Emma.’ è un riadattamento dell’omonimo romanzo di Jane Austen, già oggetto di diversi film, tra cui il super famoso ‘Clueless’ e una versione con protagonista Gwyneth Paltrow. La storia è quella di Emma Woodhouse, giovane aristocratica che vive con il padre in un’elegante casa di campagna e non ha grandi svaghi, se non quello di tramare fidanzamenti per le sue amiche, cosa che crede essere il suo più grande talento.

Dopo il felice matrimonio della sua governante, Emma decide che troverà una sistemazione anche per la sua nuova amica Harriet, una ragazza dolcissima, che come debuttante ha il gravoso problema di un padre ignoto. Una serie di ragioni fanno credere a Emma che la sua amica potrebbe ambire a un buon matrimonio con Mr. Elton, il vicario del loro villaggio. Così le fa rifiutare la proposta di un altro spasimante meno abbiente (di cui Harriet è cottissima) e incoraggia il suo interesse per il prete. Tutto ciò nonostante Mr. Knightley, vicino di casa e carissimo amico di Emma, si fosse speso per aiutare l’altro spasimante a fare la proposta ad Harriet e parlando con Mr. Elton avesse avuto modo di capire che non era interessato all’unione che Emma prospettava per lui.

La trama è fittissima e ci sono molti altri personaggi, Emma gioca con tutti come se avesse a che fare con una casa delle bambole: vive in questa bolla, costituita dal suo villaggio, e non ha l’ambizione di uscire per andare da qualche altra parte, perché rimanere lì e tramare e orchestrare le vite di quelli che le stanno intorno la fa sentire potente e superiore. L’unico che le tiene testa e vorrebbe che utilizzasse le sue doti in modo meno superbo è Mr. Knightley, per il resto Emma agisce indisturbata, con addirittura la più profonda ammirazione e venerazione di Harriet, che pende dalle sue labbra.

La versione di Autumn de Wilde racconta un anno della vita di Emma, seguendo il corso delle stagioni e forse, non a caso, comincia proprio con l’autunno. Di fatto questa costruzione divide la trama in quattro atti, come uno spettacolo teatrale, ed enfatizza le peculiarità di ogni stagione, che sono fondamentali per i costumi e la caratterizzazione dei personaggi ad essi legata. Lo stile di ognuno è infatti molto personale e, secondo quanto riportato dalla costume designer, nel caso di Emma, ape regina della storia, il modo migliore per mostrarlo era farle indossare l’abito perfetto per ogni evento, ogni giorno, in ogni stagione. Ogni stagione è associata a una specifica palette di colori, in modo tale che il cambiamento a livello temporale implichi anche quello degli abiti e sottolinei come Emma imponga se stessa in molti modi sottili nella storia.

La costume designer Alexandra Byrne (premio Oscar 2007 per i costumi di ‘Elisabeth: The Golden Age’) ha creato una serie di pezzi incredibilmente accurati dal punto di vista storico, che si ispirano a quadri e immagini delle prime riviste di moda, nate proprio nell’epoca georgiana in cui è ambientato il film. Harriet, per esempio, vive in un orfanotrofio e ha una sorta di divisa, caratterizzata da un mantello rosso, storicamente documentata. Nel corso della storia più si lega a Emma, più inizia ad assorbire il suo stile, seguendo la moda dell’epoca, esplicitando con gli abiti il rapporto (anche di potere) fra loro.

I costumi fanno percepire, cosa confermata da Anya Taylor-Joy che ha interpretato la protagonista, che gli abiti sono stati fondamentali per aiutare gli attori a creare i personaggi. Questo è chiaro e centrale per Emma, che è una persona molto sicura di sè, consapevole che un certo abito le doni e capace di metterlo impercettibilmente in mostra. Per esempio, nella scena in cui fa un ritratto di Harriet per attirare sull’amica l’attenzione di Mr. Elton, pur volendo mettere in luce l’altra, è chiaro che comunque è lei il centro di tutto, perché il vicario cerca di non guardare lo scollo del suo vestito, che è sottilmente accentuato da una sorta di collarino che indossa.

Uno dei punti di forza di questo lavoro è che tutti i dipartimenti hanno collaborato tra loro, dando vita a un risultato armonioso e coeso. A prova di ciò vi sono i costumi di alcuni personaggi, come quelli di Mrs. Elton, che sono stati studiati con il set per restituire allo spettatore l’idea di chi fosse estraneo a un determinato ambiente e chi no. Questo è particolarmente evidente quando Mrs. Elton va a trovare Emma e suo padre nella loro dimora, perché il suo vestito arancione spicca rispetto all’arredamento e ai vestiti degli altri.

A proposito della dimora del padre di Emma è giusto spendere alcune parole a riguardo: è stata cercata una casa che non fosse mai stata usata per un film e che fosse di età georgiana. Per la regista era fondamentale che tutto fosse storicamente preciso, per cui gli ambienti sono stati arredati in modo meticoloso, restituendo loro, per esempio, i colori originali delle pareti, che non si vedono quasi mai nei film in costume di quest’epoca. Inoltre la dimora doveva essere una sorta di casa delle bambole in cui la protagonista architettava tutte le sue trame, per cui ogni stanza è creata sotto questa direttiva, con un colore specifico sempre più acceso (il soggiorno è verde pastello, le scale quasi azzurro acceso, ecc).

Cosa interessante: il modo in cui vengono ritrarre le case di Emma e Mr. Knightley le fa sembrare proprietà confinanti, anche perché nella storia i loro proprietari sono vicini di casa e si frequentano molto anche per questa ragione. Nella realtà distano circa 86 miglia l’una dall’altra e per di più quella di Mr. Knightley è celebre per aver ospitato le produzioni di ‘The Crown’ e di ‘Orgoglio e Pregiudizio’ (2005), che tra l’altro condivide con ‘Emma.’ una scena in cui si fa un tour della casa (coincidenze?). Le passeggiate di Knightley da una casa all’altra annullano la distanza reale e restituiscono quell’idea di familiarità tra i personaggi, oltre che una peculiarità del carattere di lui, che è modesto e non ostenta il suo status come fa Emma recandosi da lei in carrozza.

Le sue passeggiate sono anche un perfetto esempio dei bellissimi paesaggi scelti, che ci indirizzano al tema della natura rappresentata. La natura è brillantemente usata come metafora, per esempio attraverso una precisa scelta dei fiori nella serra, in modo tale che, quando Emma flirta con Churchill, si ritrovi a raccogliere ranuncoli, rose e gelsomino, comunemente legati alla sfera amorosa. Come si è detto, ogni cosa nel film di Autumn è meticolosamente verificata a livello storico (addirittura la razza delle pecore che si vedono pascolare qua e là), quindi non sorprende che lo sia anche la reperibilità dei fiori in una certa stagione e i paesaggi, per restituire una visione quanto più vicina a quella che doveva avere in mente Jane Austen. Di fatto, il villaggio dove i personaggi fanno compere e passeggiano è poco lontano dai luoghi pensati originariamente dalla scrittrice. A questo si aggiunge il fatto che la regista sia una fotografa e abbia questo sguardo incredibilmente artistico, che rende ogni inquadratura un piccolo quadro; se negli interni questo si realizza in inquadrature simmetriche, per gli esterni l’occhio si perde nella profondità di campo.

Orgoglio e pregiudizio (2005) scena a Wilton House, Salisbury
Emma. (2020) scena a Wilton House, Salisbury

Uno degli elementi più caratterizzanti del film è la musica, che restituisce benissimo lo spirito di alcuni momenti. La colonna sonora è in parte composta appositamente e in parte ripresa da quelli che erano gli ascolti all’epoca (Beethoven e Hayden, ma anche alcuni brani della tradizione folkloristica). Nel primo caso è stata scritta su misura per alcuni personaggi, che possono avere un tema specifico che si evolve con loro o strumenti che li rappresentino come negli spaghetti western. Nel secondo caso invece, si è ripresa la grande passione di Jane Austen per la musica folkloristica e alcuni brani che ne hanno ispirati altri di folk rock, caro alla regista (Autumn prima di questo lavoro ha fotografato e vissuto profondamente l’ambiente del rock e questo è ritrovabile in molti dettagli).

La parte originale della colonna sonora è stata composta da Isobelle Waller-Bridge, sorella di Phoebe, che aveva collaborato a ‘Fleabag’ ed era stata notata proprio per questo dalla regista, colpita dal ‘musical sense of humor’ della serie, soprattutto nella seconda stagione. Lavorando insieme hanno sviluppato dei temi secondo l’idea che il direttore d’orchestra stesse in qualche modo litigando con la protagonista del film e inoltre giocando con le tonalità delle voci degli attori, che sono state riproposte con degli strumenti musicali. La compositrice ha sottolineato come ci siano un ritmo e una musicalità nella composizione delle scene di Autumn, che hanno contribuito in modo decisivo alla creazione delle musiche, le quali si sono trovate a seguire i movimenti dei personaggi e accompagnarli.

Tutti gli aspetti visti in precedenza sono la solida base su cui si appoggia la storia, e per quanto essa sia distante dalla nostra quotidianità, in quanto risalente a più di duecento anni fa, è innegabile che ci parli direttamente in molti punti. Questo perché il fatto che il contesto e l’ambientazione siano così distanti da noi, non significa necessariamente che lo siano anche i personaggi. Emma è difficile da amare alla prima inquadratura, ma sta proprio lì parte della grandezza della storia, nell’avere un antieroe come protagonista. Il soggetto del film è la giovinezza, una giovinezza macchiata di hybris, che in ultima analisi si ritrova a vivere molti momenti che potrebbero capitare anche a uno spettatore. Ci sono una serie di situazioni topiche nella storia, che ne fanno un racconto senza tempo, in cui tutti possono immedesimarsi.

Banalmente a tutti è successo almeno una volta di trovarsi a una festa in cui qualcuno abbia detto qualcosa di rude creando l’imbarazzo generale, oppure di capire di essere innamorati del proprio migliore amico; Autumn de Wilde è partita da episodi che ha vissuto sulla sua pelle come questi, e ne ha tirato fuori alcune delle scene più riuscite della pellicola. La vita della regista è nascosta in grandi e piccoli momenti, come il naso sanguinante di Emma, aggiunto allo script per umanizzare il personaggio, ma anche perché spesso accade ad Autumn stessa.

E’ facile ritrovarsi nei personaggi del film, perché questa versione si è concentrata molto di più su alcune dinamiche, una fra tutte la relazione tra Harriet ed Emma, in una prospettiva di crescita. All’inizio del film Harriet è la nuova bambola di Emma, che la indirizza verso una scelta piuttosto che un’altra a suo piacimento. Più la storia prosegue, più Emma vede i suoi piani per Harriet sfumare e si ritrova con un’amica sconsolata e disillusa circa le sue prospettive matrimoniali. Questo non la cambia, perché comunque rimane fedele a se stessa, ma la fa crescere e la rende più umile e contemporaneamente fa maturare anche la sua migliore amica, rendendola per esempio capace di farsi valere di più quando parla con Emma.

I personaggi sono giovani e come tali si comportano: cambiano opinione l’uno sull’altro nel corso del tempo, talvolta sono irragionevoli, talvolta sono ingenui e soprattutto hanno quell’energia, quegli sguardi, che sono riassunti benissimo nella scena del ballo, per cui tutti parlano con gli occhi. Come ogni film in costume che si rispetti il ballo è usato come momento di incontro e contatto, perché storicamente era l’unico momento in cui le persone potevano essere così vicine, fisiche e vive. E’ anche una metafora del punto di vista di Emma, la quale ricerca senza successo la complicità di Churchill per poi ritrovarsi (letteralmente appunto, grazie al ballo) nelle braccia di Knightley.

Il cast molto giovane e molto bravo rende bene le sfumature, e soprattutto la familiarità o il distacco che si crea in un momento piuttosto che in un altro. Uno degli attori migliori è Johnny Flynn, che interpreta Knightley, personaggio che fin dalla prima scena in cui compare è chiaro sarà speciale. Infatti in quella prima scena Autumn de Wilde ha voluto mostrare come venivano vestiti gli aristocratici e come lui ed Emma avessero gli stessi abiti di base. Per cui Knightley viene vestito dai suoi domestici, invertendo il topos tradizionale dei film in costume che prevede la vestizione di una donna.

Il suo è un personaggio che veste sin da subito abiti diversi da quelli che siamo abituati a vedere per la mascolinità: è legato ad Emma e litiga con lei solo in funzione del fatto che vorrebbe che fosse più matura; in più c’è una dolcezza di fondo nel suo carattere, che probabilmente è di famiglia, perché nella scena finale sia lui che il fratello si commuovono e versano qualche lacrima al matrimonio. Questi dettagli e molti altri delineano una visione diversa di mascolinità, che rientra sempre in quell’ottica di familiarità che la pellicola crea scena dopo scena.

Una familiarità che trova la sua forza anche in quella che mi piace definire ‘componente realistica’ che trapela più volte nella narrazione: quando Emma si alza la gonna per scaldarsi davanti al camino, quando Miss Martin ha l’orlo del vestito bagnato per la pioggia, quando le pecore stanno pascolando davanti alle case o quando qualcuno mangia troppo velocemente a tavola. Tutti questi piccoli dettagli danno come una linfa vitale ai personaggi e ce li rendono amici. Sono stati usati tra l’altro sapientemente per far trapelare la vena comica dalla storia e non imporla rigidamente dall’esterno.

Autumn de Wilde ha ricostruito questo mondo in modo dettagliato e l’ha riempito di una giovinezza sincera, l’ha fatto con passione e con affetto verso la storia e i suoi personaggi. Se Jane Austen vedesse il film non potrebbe fare altro che confermare che si tratti della trasposizione definitiva della storia (non a caso nel titolo c’è un punto)… poi probabilmente si farebbe un piantino anche lei per il finale.

Costanza Rossi

FONTI: costume design https://fashionista.com/2020/02/emma-movie-autumn-de-wilde-interview-costumes + analisi dei costumi e della loro accuratezza storica https://youtu.be/SKzM9ZM2eHY & https://youtu.be/KAo8ehvkom4 + interviste a Alexandra Byrne https://youtu.be/k349Gpdjlnc & https://youtu.be/99JheEU7OsQ

set design https://www.architecturaldigest.com/story/emma-set-design + locations https://www.visitbritain.com/gb/en/where-to-see-emma-filming-locations + importanza dei fiori nella trasposizione https://www.tatler.com/article/floristry-in-film-emma

intervista alla compositrice Isobel Waller-Bridge https://www.focusfeatures.com/article/interview_composer_isobel-waller-bridge/ + intervista al cast e alle set designer direttamente sul set https://youtu.be/UwbrG89Uwkk + intervista regista e attrice principale https://youtu.be/QyDhhwDq-S4 + il personaggio di Harriet e ‘Clueless’ secondo Autumn de Wild https://www.indiewire.com/2020/02/emma-director-autumn-de-wilde-jane-austen-interview-1202212448/

perché c’è il punto nel titolo https://www.bbcamerica.com/blogs/emma-director-autumn-de-wilde-explains-why-there-is-a-period-at-the-end-of-the-movie-title–16722 + prima sequenza del film https://www.artofthetitle.com/title/emma-2020/