Tag Archives: recensioni

com’è davvero il nuovo libro di Sally Rooney?

Periodicamente sento l’esigenza di scrivere qualcosa per riordinare i miei pensieri intorno a un preciso, e anche molto circoscritto, argomento. Questa volta è toccato a BEAUTIFUL WORLD, WHERE ARE YOU di Sally Rooney, il suo terzo e ultimo romanzo.

Potrete accusarci di pigrizia, ma io ed Ester abbiamo aspettato che uscisse la traduzione in italiano e l’abbiamo comprato subito dopo, secondo la nostra consolidata (posso dire consolidata, Ester?) tradizione per cui leggiamo dei libri in contemporanea. A parte il fatto che è una bellissima tradizione che dovreste copiarci, Sally Rooney è un po’ la nostra autrice del cuore… parlo come coppia di lettrici. Non so se capita anche a voi, ma io ho un sacco di amici con cui condivido singolarmente gli stessi precisi sentimenti per un certo scrittore o un certo film o una saga e così via; nel caso di Ester si tratta appunto della Rooney. Di fatto il bello di leggere l’ultimo in contemporanea stava proprio nella nostra comune passione per lei, in particolare per NORMAL PEOPLE (fatevi un favore e, non dico di leggere il libro se non vi va, ma di guardare almeno la miniserie).

Mentre aspettavamo che uscisse per Einaudi, continuavamo a vedere la copertina ovunque, però, nonostante questo, non eravamo riuscite a farci un’idea su come fosse realmente. A posteriori è stato meglio così, perché, pur avendolo visto e rivisto, l’abbiamo letto praticamente al buio.

La storia ruota intorno a dei ventenni-quasi-trentenni, che vivono a Dublino o ci hanno vissuto, per cui, fin qui, super classic Sally Rooney e ci piace. Mentre leggevo mi immaginavo che si incrociassero per strada con qualcuno delle altre storie e creava in me una sorta di dolce sentimento di familiarità. In realtà metà della storia è ambientata a tre ore di distanza dalla città, in un paesino sul mare in cui abitano due dei protagonisti, ma anche l’assenza di Dublino è un continuo parlare di Dublino, soprattutto in negativo all’inizio, quindi non si avvertiva così tanto la distanza tra i luoghi.

Due dei protagonisti, Alice e Felix, stanno appunto in questo posto di mare e di vento, mentre gli altri due, Eileen e Simon, vivono e lavorano a Dublino. Escluso Felix, gli altri tre si conoscono da tempo e si potrebbe dire che sono diventati adulti insieme. Alice e Eileen hanno studiato e vissuto insieme e lavorano entrambe nel mondo editoriale: una come scrittrice e l’altra come editor per una rivista letteraria. Sono loro le vere protagoniste della storia, anche perché conosciamo soprattutto il loro punto di vista, con un capitolo sì e uno no intervallato da mail in cui si aggiornano una sulla vita dell’altra e riflettono sul mondo e sulla realtà.

Le mail sono la parte più interessante di questo nuovo lavoro, sia a livello puramente narrativo, sia per la struttura del testo. Ester mi ha fatto notare che sono quello che ha consentito di creare un romanzo che sia la sintesi dei due precedenti: da un lato con il taglio sociale di ”critica” di PARLARNE TRA AMICI e dall’altro con la profondità emotiva di PERSONE NORMALI e ha senso nell’ottica in cui quest’ultimo lavoro mi sembra chiudere in un certo senso le fila, come se tutti insieme costituissero una sorta di trilogia.

Questi scambi di mail sono il centro di tutto, perché Alice e Eileen propongono la loro visione dei fatti che scorrono negli altri capitoli e, al contempo, portano avanti uno scambio puramente intellettuale sulle loro visioni del mondo su una moltitudine di argomenti. A livello di struttura del testo ho scritto sopra che è interessante, perché propone qualcosa di diverso rispetto alla solita diramazione degli eventi di un romanzo. La struttura è davvero molto equilibrata: si alterna un capitolo con la vita di Alice, una sua mail, un capitolo con la vita di Eileen, una sua risposta e così di seguito, fino al finale, che ha una struttura leggermente diversa, ma molto equilibrata rispetto anche allo snodo degli eventi. Mi rendo conto che si tratti di una piccola cosa, ma sono così stanca della continua riproposizione degli stessi schemi e delle stesse tematiche nei romanzi, che ogni piccola variazione mi sembra geniale e assolutamente degna di nota.

Come dicevo, le due protagoniste lavorano nell’editoria e, in modo non troppo velato, nascondono l’autrice stessa, elemento che annovererei tra i più intriganti dell’opera, ma forse solo perché amo il suo carattere metaletterario a prescindere dagli argomenti per cui è usato. Di fatto nelle mail sembrava che Sally Rooney stessa prendesse la parola e non era difficile da immaginare, visto che Alice aveva scritto come lei due romanzi di grande successo in precedenza e commentava continuamente il mondo dell’editoria, i suoi lettori e la sua vita da autrice.

Se vogliamo un attimo approfondire questo discorso (Shall we?) la Rooney era reduce da due enormi successi e si trovava imbrigliata dalle aspettative del mondo letterario per questo suo terzo lavoro, quindi trovo semplicemente geniale (o se non volete usare ‘geniale’, mettiamo ‘originale e audace’) smascherare il processo di creazione in modo metaletterario, creandosi uno spazio per commentare il lavoro in corso d’opera e la sua esperienza di autrice.

Seguendo le dinamiche dell’ipertrofia del mercato (=si pubblica un sacco), ma anche quelle della riduzione del numero lettori (=si vende pochissimo: ogni anno solo il 6% dei nuovi libri in Italia vende più di mille copie!!!!) il nuovo libro di Sally Rooney è stato spinto tantissimo. La Rooney ha già alle spalle due grandi successi, con conseguenti trasposizioni sul piccolo schermo, e un suo nuovo libro rappresenta una ghiotta occasione per l’editoria, nell’ottica in cui una considerevole fetta di lettori l’avrebbe comprato a occhi chiusi. Nel libro ho trovato moltissimo questo ‘struggle’ retrospettivo sul suo lavoro, con lei che faceva i conti con le sue aspettative prima del successo e la realtà dei fatti con cui si è scontrata. Lei l’ha articolata molto meglio di me, quindi se vi interessa dovreste leggerla, anche solo per questo.

C’è sicuramente una vena molto caustica, ma la inserirei in un discorso generazionale che ci riguarda tutti e di cui lei si è fatta in qualche modo portavoce. Fin dalle prime mail si legge una certa disillusione circa il mondo e le sue prospettive, ma è una visione che attribuirei all’autrice fino ad un certo punto, in quanto so essere caratterizzante di molti, per non dire tutti, i miei amici. Inizialmente mi sembrava molto presente, anche troppo, ma via via che proseguivo la trovavo quanto mai onesta e corretta nei confronti della nostra percezione della realtà come ‘giovani adulti’ e le conclusioni finali fanno quanto più riflettere su tutto quello che lei ha deciso di affrontare nel libro.

Per quanto riguarda le storie dei personaggi in sé, direi che è chiaro quanto fosse diverso il loro peso nel libro a partire dal fatto che le tratto nella mia riflessione solo adesso. Non voglio fare spoiler per chi non ha letto, per cui non dirò molto, se non che erano una sorta di comfort accanto alle riflessioni delle mail, almeno inizialmente. Mi ci sono immersa come ho fatto in passato con gli altri libri e la cosa migliore era ritrovare molti rimandi con quelli, più o meno impliciti, più o meno voluti, che mi facevano sperare che non finisse mai di raccontarne, anche per il suo peculiare modo di soffermarsi sui dettagli esterni, che credo sia una nuova e forte ‘feature’ della sua scrittura (che adoro!!).

Come in passato in certi momenti andava tutto alla grande e subito dopo malissimo e pensavo <classic Sally… ecco le persone normali di cui parli sempre> quelle che si incasinano da sole eccetera, ma in realtà era molto più di questo, perché c’era una consapevolezza diversa. I personaggi riflettevano molto di più sulle loro azioni, o così mi sembrava, forse perché a volte mi ritrovavo tra loro e mi chiedevo perché fossimo così, perché dovessimo talvolta sabotarci, talvolta odiarci e talvolta scegliere in base alla paura di venire delusi in seguito.

Insomma nel caso in cui tu l’abbia visto in libreria e ti sia chiesta se fosse il caso di dargli una chance, la mia risposta è sì. Invece se hai già letto questo libro, scrivimi e parliamone!

Alla prossima mia cotta letteraria e non, C

n.b. questo pagina di blog è arrivata a te con la gentile collaborazione di ‘movie of mine‘ (no, non è una pubblicità, solo una playlist stra bella)

DAGUERRéOTYPES -di AGNèS VARDA, 1975

Già il titolo di questo lavoro è genuinamente geniale. E’ genuinamente geniale perché ‘dagherròtipo’ è un termine che indica un processo fotografico che riproduce un’immagine su un supporto in argento o rame argentato sensibilizzato, ma nel caso specifico di questo film allude anche alle persone che Agnès decide di ritrarre, i negozianti e abitanti di Rue Daguerre a Parigi.

C’è da chiedersi se l’abbia fatto di proposito, e no, è un caso, perché quella è la via in cui viveva e quello era il suo vicinato. Agnes qui è sì regista, ma più che altro attenta vicina. Una vicina che osserva con affetto le persone che tutti i giorni si alzano e aprono i loro piccoli negozi, per un lasso di tempo che trova il suo equilibrio tra più o meno sporadiche visite della clientela e momenti di quiete, se non addirittura solitudine, completa. Sarà proprio per questa solitudine che i commercianti della sua via sono tutti in coppia: mariti e mogli che condividono un mestiere e, di fatto, tutto il loro tempo.

Questo film è un monologo di Agnès Varda sulle persone che in qualche modo le piacciono. C’è l’anziana proprietaria de Le Chardon Blue, un po’ stanca e un po’ smemorata, e c’è una portinaia alle soglie della pensione che rivendica il suo ruolo di guardiana. Agnès un po’ si nasconde nei loro spazi, un po’ li mette in posa e li intervista con poche domande precise, poi monta tutto con estrema accuratezza (in ben quattro mesi!).

Mettendoli in posa, i negozianti diventano ritratti sospesi nel tempo, ma qualche piccolo dettaglio si muove, c’è l’accenno di un gesto e ci sono i respiri: sono dagherrotipi vivi!

Sono riprese che sanno di inverno, quando le strade sono bagnate e le persone si stringono nei cappotti perché tira un po’ di vento. Sanno anche di lacca di parrucchiera, quella vecchia lacca che si usava ancora quando eravamo piccole, e sanno di pane appena sfornato e di legno riverniciato. Gli ambienti sono così piccoli che rimaniamo quasi incastrati insieme ai clienti che comprano bottoni e rossetti, pagano bistecche e baguette, chiedono di aggiustare orologi e camicie. Ci ritroviamo in questi piccoli spazi commerciali, come se fosse anche il nostro quartiere, come se sbirciassimo anche noi cosa succede in strada mentre siamo in fila dal panettiere.

L’idea di Agnes è che i documentari siano tutti soggettivi, che non esista il cinéma-vérité. Questo non significa che il soggetto sia Agnès, ma che l’interpretazione sia soggettiva, cioè che questo sia un film di Varda sugli altri visti da lei. Il soggetto è la quotidianità di Rue Daguerre, a partire da Le Chardon Bleu, che aveva colpito la regista per le sue vetrine immutabili, in cui la troupe si intrufola seguendo la figlia della regista, che è una cliente affezionata dei due vecchietti proprietari.

Loro sono i primi e gli ultimi su cui la camera si sofferma, in un discreto lavoro di archiviazione quasi, verso cui è impossibile non fare un confronto con l’oggi. Si tratta di ritratti o forse di reportage o forse di omaggio, nemmeno Agnès ne è sicura, sta di fatto che i loro sguardi, i loro gesti, le loro parole, si sono conservati fino a noi, e ci ospitano tra loro, come se fossimo nati e cresciuti lì, in una sorta di piccolo villaggio dentro la città.

Sarei rimasta ore e ore a guardare queste persone, che solo poco prima non avevo mai visto e in quel momento mi apparivano così familiari. Ogni loro gesto era usuale e lento, il pane pesato e infornato, la carne scelta e tagliata, per me erano anche gesti pieni di una vita che non ho mai visto, che non esiste più.

Costanza

Questi ‘Daguerre-tipi’ colorati, queste immagini all’antica, il ritratto collettivo e quasi stereotipato di alcuni uomini e donne di Rue Daguerre, queste immagini e questi suoni ansiosi di rimanere discreti, di fronte al silenzio grigio che circonda la signora Chardon Bleu… formano tutti insieme un reportage? Un omaggio? Un saggio? Un rimpianto? Un rimprovero? Un approccio? A d’ogni modo è un film che io firmo come vicina: ‘Daguerre-tipa’ Agnès!

FONTI: ‘Alla scoperta di Agnès Varda in 5 film’ della cineteca di Bologna, che a sua volta ha come fonti l’intervista di Mireille Amiel in ‘Cinema 75’ n.204, dicembre 1975 + intervista di Andrée Tournès in ‘Jeune Cinéma’ n.140, febbraio 1982 + ‘Cicim’ n.4, febbraio 1983 +’Séquences’ n.126, ottobre 1986 + intervista di Colette Milon in ‘Cinémaction’ n.41, 1987 + ‘Varda par Agnès’, E’ditions Cahiers du cinéma, Parigi 1994 + Claude Manceron in ‘Télérama’ n1404, 8 dicembre 1976 + Francoise Audé in ‘Positif’ n.218, maggio 1979

definizione di un dagherròtipo https://treccani.it/enciclopedia/dagherrotipo/

analisi del film ‘Emma.’ (2020, Autumn de Wilde)

‘Emma.’ è un riadattamento dell’omonimo romanzo di Jane Austen, già oggetto di diversi film, tra cui il super famoso ‘Clueless’ e una versione con protagonista Gwyneth Paltrow. La storia è quella di Emma Woodhouse, giovane aristocratica che vive con il padre in un’elegante casa di campagna e non ha grandi svaghi, se non quello di tramare fidanzamenti per le sue amiche, cosa che crede essere il suo più grande talento.

Dopo il felice matrimonio della sua governante, Emma decide che troverà una sistemazione anche per la sua nuova amica Harriet, una ragazza dolcissima, che come debuttante ha il gravoso problema di un padre ignoto. Una serie di ragioni fanno credere a Emma che la sua amica potrebbe ambire a un buon matrimonio con Mr. Elton, il vicario del loro villaggio. Così le fa rifiutare la proposta di un altro spasimante meno abbiente (di cui Harriet è cottissima) e incoraggia il suo interesse per il prete. Tutto ciò nonostante Mr. Knightley, vicino di casa e carissimo amico di Emma, si fosse speso per aiutare l’altro spasimante a fare la proposta ad Harriet e parlando con Mr. Elton avesse avuto modo di capire che non era interessato all’unione che Emma prospettava per lui.

La trama è fittissima e ci sono molti altri personaggi, Emma gioca con tutti come se avesse a che fare con una casa delle bambole: vive in questa bolla, costituita dal suo villaggio, e non ha l’ambizione di uscire per andare da qualche altra parte, perché rimanere lì e tramare e orchestrare le vite di quelli che le stanno intorno la fa sentire potente e superiore. L’unico che le tiene testa e vorrebbe che utilizzasse le sue doti in modo meno superbo è Mr. Knightley, per il resto Emma agisce indisturbata, con addirittura la più profonda ammirazione e venerazione di Harriet, che pende dalle sue labbra.

La versione di Autumn de Wilde racconta un anno della vita di Emma, seguendo il corso delle stagioni e forse, non a caso, comincia proprio con l’autunno. Di fatto questa costruzione divide la trama in quattro atti, come uno spettacolo teatrale, ed enfatizza le peculiarità di ogni stagione, che sono fondamentali per i costumi e la caratterizzazione dei personaggi ad essi legata. Lo stile di ognuno è infatti molto personale e, secondo quanto riportato dalla costume designer, nel caso di Emma, ape regina della storia, il modo migliore per mostrarlo era farle indossare l’abito perfetto per ogni evento, ogni giorno, in ogni stagione. Ogni stagione è associata a una specifica palette di colori, in modo tale che il cambiamento a livello temporale implichi anche quello degli abiti e sottolinei come Emma imponga se stessa in molti modi sottili nella storia.

La costume designer Alexandra Byrne (premio Oscar 2007 per i costumi di ‘Elisabeth: The Golden Age’) ha creato una serie di pezzi incredibilmente accurati dal punto di vista storico, che si ispirano a quadri e immagini delle prime riviste di moda, nate proprio nell’epoca georgiana in cui è ambientato il film. Harriet, per esempio, vive in un orfanotrofio e ha una sorta di divisa, caratterizzata da un mantello rosso, storicamente documentata. Nel corso della storia più si lega a Emma, più inizia ad assorbire il suo stile, seguendo la moda dell’epoca, esplicitando con gli abiti il rapporto (anche di potere) fra loro.

I costumi fanno percepire, cosa confermata da Anya Taylor-Joy che ha interpretato la protagonista, che gli abiti sono stati fondamentali per aiutare gli attori a creare i personaggi. Questo è chiaro e centrale per Emma, che è una persona molto sicura di sè, consapevole che un certo abito le doni e capace di metterlo impercettibilmente in mostra. Per esempio, nella scena in cui fa un ritratto di Harriet per attirare sull’amica l’attenzione di Mr. Elton, pur volendo mettere in luce l’altra, è chiaro che comunque è lei il centro di tutto, perché il vicario cerca di non guardare lo scollo del suo vestito, che è sottilmente accentuato da una sorta di collarino che indossa.

Uno dei punti di forza di questo lavoro è che tutti i dipartimenti hanno collaborato tra loro, dando vita a un risultato armonioso e coeso. A prova di ciò vi sono i costumi di alcuni personaggi, come quelli di Mrs. Elton, che sono stati studiati con il set per restituire allo spettatore l’idea di chi fosse estraneo a un determinato ambiente e chi no. Questo è particolarmente evidente quando Mrs. Elton va a trovare Emma e suo padre nella loro dimora, perché il suo vestito arancione spicca rispetto all’arredamento e ai vestiti degli altri.

A proposito della dimora del padre di Emma è giusto spendere alcune parole a riguardo: è stata cercata una casa che non fosse mai stata usata per un film e che fosse di età georgiana. Per la regista era fondamentale che tutto fosse storicamente preciso, per cui gli ambienti sono stati arredati in modo meticoloso, restituendo loro, per esempio, i colori originali delle pareti, che non si vedono quasi mai nei film in costume di quest’epoca. Inoltre la dimora doveva essere una sorta di casa delle bambole in cui la protagonista architettava tutte le sue trame, per cui ogni stanza è creata sotto questa direttiva, con un colore specifico sempre più acceso (il soggiorno è verde pastello, le scale quasi azzurro acceso, ecc).

Cosa interessante: il modo in cui vengono ritrarre le case di Emma e Mr. Knightley le fa sembrare proprietà confinanti, anche perché nella storia i loro proprietari sono vicini di casa e si frequentano molto anche per questa ragione. Nella realtà distano circa 86 miglia l’una dall’altra e per di più quella di Mr. Knightley è celebre per aver ospitato le produzioni di ‘The Crown’ e di ‘Orgoglio e Pregiudizio’ (2005), che tra l’altro condivide con ‘Emma.’ una scena in cui si fa un tour della casa (coincidenze?). Le passeggiate di Knightley da una casa all’altra annullano la distanza reale e restituiscono quell’idea di familiarità tra i personaggi, oltre che una peculiarità del carattere di lui, che è modesto e non ostenta il suo status come fa Emma recandosi da lei in carrozza.

Le sue passeggiate sono anche un perfetto esempio dei bellissimi paesaggi scelti, che ci indirizzano al tema della natura rappresentata. La natura è brillantemente usata come metafora, per esempio attraverso una precisa scelta dei fiori nella serra, in modo tale che, quando Emma flirta con Churchill, si ritrovi a raccogliere ranuncoli, rose e gelsomino, comunemente legati alla sfera amorosa. Come si è detto, ogni cosa nel film di Autumn è meticolosamente verificata a livello storico (addirittura la razza delle pecore che si vedono pascolare qua e là), quindi non sorprende che lo sia anche la reperibilità dei fiori in una certa stagione e i paesaggi, per restituire una visione quanto più vicina a quella che doveva avere in mente Jane Austen. Di fatto, il villaggio dove i personaggi fanno compere e passeggiano è poco lontano dai luoghi pensati originariamente dalla scrittrice. A questo si aggiunge il fatto che la regista sia una fotografa e abbia questo sguardo incredibilmente artistico, che rende ogni inquadratura un piccolo quadro; se negli interni questo si realizza in inquadrature simmetriche, per gli esterni l’occhio si perde nella profondità di campo.

Orgoglio e pregiudizio (2005) scena a Wilton House, Salisbury
Emma. (2020) scena a Wilton House, Salisbury

Uno degli elementi più caratterizzanti del film è la musica, che restituisce benissimo lo spirito di alcuni momenti. La colonna sonora è in parte composta appositamente e in parte ripresa da quelli che erano gli ascolti all’epoca (Beethoven e Hayden, ma anche alcuni brani della tradizione folkloristica). Nel primo caso è stata scritta su misura per alcuni personaggi, che possono avere un tema specifico che si evolve con loro o strumenti che li rappresentino come negli spaghetti western. Nel secondo caso invece, si è ripresa la grande passione di Jane Austen per la musica folkloristica e alcuni brani che ne hanno ispirati altri di folk rock, caro alla regista (Autumn prima di questo lavoro ha fotografato e vissuto profondamente l’ambiente del rock e questo è ritrovabile in molti dettagli).

La parte originale della colonna sonora è stata composta da Isobelle Waller-Bridge, sorella di Phoebe, che aveva collaborato a ‘Fleabag’ ed era stata notata proprio per questo dalla regista, colpita dal ‘musical sense of humor’ della serie, soprattutto nella seconda stagione. Lavorando insieme hanno sviluppato dei temi secondo l’idea che il direttore d’orchestra stesse in qualche modo litigando con la protagonista del film e inoltre giocando con le tonalità delle voci degli attori, che sono state riproposte con degli strumenti musicali. La compositrice ha sottolineato come ci siano un ritmo e una musicalità nella composizione delle scene di Autumn, che hanno contribuito in modo decisivo alla creazione delle musiche, le quali si sono trovate a seguire i movimenti dei personaggi e accompagnarli.

Tutti gli aspetti visti in precedenza sono la solida base su cui si appoggia la storia, e per quanto essa sia distante dalla nostra quotidianità, in quanto risalente a più di duecento anni fa, è innegabile che ci parli direttamente in molti punti. Questo perché il fatto che il contesto e l’ambientazione siano così distanti da noi, non significa necessariamente che lo siano anche i personaggi. Emma è difficile da amare alla prima inquadratura, ma sta proprio lì parte della grandezza della storia, nell’avere un antieroe come protagonista. Il soggetto del film è la giovinezza, una giovinezza macchiata di hybris, che in ultima analisi si ritrova a vivere molti momenti che potrebbero capitare anche a uno spettatore. Ci sono una serie di situazioni topiche nella storia, che ne fanno un racconto senza tempo, in cui tutti possono immedesimarsi.

Banalmente a tutti è successo almeno una volta di trovarsi a una festa in cui qualcuno abbia detto qualcosa di rude creando l’imbarazzo generale, oppure di capire di essere innamorati del proprio migliore amico; Autumn de Wilde è partita da episodi che ha vissuto sulla sua pelle come questi, e ne ha tirato fuori alcune delle scene più riuscite della pellicola. La vita della regista è nascosta in grandi e piccoli momenti, come il naso sanguinante di Emma, aggiunto allo script per umanizzare il personaggio, ma anche perché spesso accade ad Autumn stessa.

E’ facile ritrovarsi nei personaggi del film, perché questa versione si è concentrata molto di più su alcune dinamiche, una fra tutte la relazione tra Harriet ed Emma, in una prospettiva di crescita. All’inizio del film Harriet è la nuova bambola di Emma, che la indirizza verso una scelta piuttosto che un’altra a suo piacimento. Più la storia prosegue, più Emma vede i suoi piani per Harriet sfumare e si ritrova con un’amica sconsolata e disillusa circa le sue prospettive matrimoniali. Questo non la cambia, perché comunque rimane fedele a se stessa, ma la fa crescere e la rende più umile e contemporaneamente fa maturare anche la sua migliore amica, rendendola per esempio capace di farsi valere di più quando parla con Emma.

I personaggi sono giovani e come tali si comportano: cambiano opinione l’uno sull’altro nel corso del tempo, talvolta sono irragionevoli, talvolta sono ingenui e soprattutto hanno quell’energia, quegli sguardi, che sono riassunti benissimo nella scena del ballo, per cui tutti parlano con gli occhi. Come ogni film in costume che si rispetti il ballo è usato come momento di incontro e contatto, perché storicamente era l’unico momento in cui le persone potevano essere così vicine, fisiche e vive. E’ anche una metafora del punto di vista di Emma, la quale ricerca senza successo la complicità di Churchill per poi ritrovarsi (letteralmente appunto, grazie al ballo) nelle braccia di Knightley.

Il cast molto giovane e molto bravo rende bene le sfumature, e soprattutto la familiarità o il distacco che si crea in un momento piuttosto che in un altro. Uno degli attori migliori è Johnny Flynn, che interpreta Knightley, personaggio che fin dalla prima scena in cui compare è chiaro sarà speciale. Infatti in quella prima scena Autumn de Wilde ha voluto mostrare come venivano vestiti gli aristocratici e come lui ed Emma avessero gli stessi abiti di base. Per cui Knightley viene vestito dai suoi domestici, invertendo il topos tradizionale dei film in costume che prevede la vestizione di una donna.

Il suo è un personaggio che veste sin da subito abiti diversi da quelli che siamo abituati a vedere per la mascolinità: è legato ad Emma e litiga con lei solo in funzione del fatto che vorrebbe che fosse più matura; in più c’è una dolcezza di fondo nel suo carattere, che probabilmente è di famiglia, perché nella scena finale sia lui che il fratello si commuovono e versano qualche lacrima al matrimonio. Questi dettagli e molti altri delineano una visione diversa di mascolinità, che rientra sempre in quell’ottica di familiarità che la pellicola crea scena dopo scena.

Una familiarità che trova la sua forza anche in quella che mi piace definire ‘componente realistica’ che trapela più volte nella narrazione: quando Emma si alza la gonna per scaldarsi davanti al camino, quando Miss Martin ha l’orlo del vestito bagnato per la pioggia, quando le pecore stanno pascolando davanti alle case o quando qualcuno mangia troppo velocemente a tavola. Tutti questi piccoli dettagli danno come una linfa vitale ai personaggi e ce li rendono amici. Sono stati usati tra l’altro sapientemente per far trapelare la vena comica dalla storia e non imporla rigidamente dall’esterno.

Autumn de Wilde ha ricostruito questo mondo in modo dettagliato e l’ha riempito di una giovinezza sincera, l’ha fatto con passione e con affetto verso la storia e i suoi personaggi. Se Jane Austen vedesse il film non potrebbe fare altro che confermare che si tratti della trasposizione definitiva della storia (non a caso nel titolo c’è un punto)… poi probabilmente si farebbe un piantino anche lei per il finale.

Costanza Rossi

FONTI: costume design https://fashionista.com/2020/02/emma-movie-autumn-de-wilde-interview-costumes + analisi dei costumi e della loro accuratezza storica https://youtu.be/SKzM9ZM2eHY & https://youtu.be/KAo8ehvkom4 + interviste a Alexandra Byrne https://youtu.be/k349Gpdjlnc & https://youtu.be/99JheEU7OsQ

set design https://www.architecturaldigest.com/story/emma-set-design + locations https://www.visitbritain.com/gb/en/where-to-see-emma-filming-locations + importanza dei fiori nella trasposizione https://www.tatler.com/article/floristry-in-film-emma

intervista alla compositrice Isobel Waller-Bridge https://www.focusfeatures.com/article/interview_composer_isobel-waller-bridge/ + intervista al cast e alle set designer direttamente sul set https://youtu.be/UwbrG89Uwkk + intervista regista e attrice principale https://youtu.be/QyDhhwDq-S4 + il personaggio di Harriet e ‘Clueless’ secondo Autumn de Wild https://www.indiewire.com/2020/02/emma-director-autumn-de-wilde-jane-austen-interview-1202212448/

perché c’è il punto nel titolo https://www.bbcamerica.com/blogs/emma-director-autumn-de-wilde-explains-why-there-is-a-period-at-the-end-of-the-movie-title–16722 + prima sequenza del film https://www.artofthetitle.com/title/emma-2020/