riflessione estemporanea del tutto temporanea

dalla fine dell’estate rifletto tantissimo sulle stagioni e mi sono accorta, più di ogni altro anno, del pigro progredire dell’autunno. ho iniziato a notare i cicli della luna e quanto fossero veloci, quante lune piene si susseguono in un mese, ecc.. probabilmente è perché ho meno cose da fare degli scorsi anni, meno posti in cui essere e andare. alle superiori avevo una routine abbastanza consolidata, molte piccole scadenze da rispettare e vivevo un anno dopo l’altro abbastanza passivamente dal punto di vista delle stagioni. ovviamente mi accorgevo del passaggio da una all’altra, ma più che altro credo per il cambio di temperatura: perché per andare a scuola dovevo prendere una giacca piuttosto che un’altra, perché dovevo ricordarmi la sciarpa, perché avevo freddo al naso e ai piedi.

qualcosa è cambiato. forse è cambiato anche volontariamente, perché mi ricordo che dal nulla quest’estate mi sono chiesta quale fosse la mia stagione preferita e volevo rispondermi in modo serio. ho fatto di quella domanda una sorta di quesito fondamentale, da motivare con delle serie considerazioni circa me e l’ambiente intorno a me e come mi faceva sentire. istintivamente mi veniva da rispondere ‘autunno‘, ma senza delle motivazioni, più per dei ricordi. ricordi come il viale davanti a scuola alle elementari, pieno di grandi foglie secche in cui camminavo da piccola, o di una mattina di pioggia e di tuoni in cui alcuni bambini si nascondevano sotto dei tavoli in palestra e la maestra ci ha fatto correre fino all’ingresso della scuola in fila per due. nella mia testa sono tutti ricordi vicini, che rispondono istintivamente, ma sento che non si tratta solo di quelli.

lo sento, ma non so dirlo. per questo l’altro ieri ho chiesto a mia nonna Nadia quale fosse la sua stagione preferita e perché. ho scelto lei perché ha vissuto molte più stagioni di me e volevo vedere come si raccapezzava.

ovviamente si raccapezza molto meglio: sapeva esattamente il motivo ed è partita in quarta con la spiegazione. mi ha detto che la sua preferita è molto probabilmente la primavera, perché mantiene le promesse. che promesse? nessuno ci dà la certezza che i fiori e le foglie rinascano dopo l’inverno, è una cosa risaputa e scontata, noi tutti la diamo per sicura, tanto quanto sappiamo che il sole risorgerà ogni mattina, ma il fatto che si ripeta ogni anno non sminuisce il fatto in sé, come facciamo noi. la primavera arriva sempre, ogni anno, portando la rinascita di tutte le piante e il risveglio degli animali in letargo e il ritorno degli uccelli migrati altrove. il fatto che questa risposta fosse così semplice per lei, così a portata di mano, mi ha lasciato un po’ così, a riflettere.

da quel momento mi chiedo perché sia così facile notare stormi e stormi lasciare le città a novembre e contemporaneamente quanto sia strano che a marzo ogni posto si ripopoli silenziosamente, come se ogni uccello tornasse da solo, senza voler dare troppo nell’occhio.

anche se questo dettaglio degli stormi fa sembrare l’autunno molto plateale, così come lo fanno tutti i colori che lo caratterizzano, non credo che l’autunno sia la stagione più ‘estroversa‘. tutto il contrario: è la stagione del richiudersi in se stessi dopo 500 giorni d’estate (se l’hai capita, occhiolino). per lo meno io ho sentito proprio questo passaggio da voler uscire tutti i giorni, a ritirarmi piano piano in casa e trovare delle scuse per rimanerci. come se stessi andando un po’ anche io in letargo, quelle poche volte in cui questo autunno sono andata a lezione e fatto cose da universitaria, le ho inizialmente vissute con una sorta di leggero fastidio, di interruzione indolente dei miei pomeriggi in solitaria a leggere e bere Chai.

poi in realtà in mezzo ai miei amici a Venezia o insieme ad Em al Salone del libro a Torino (in una fuga di un giorno che rimarrà per sempre nel mio cuore) ero felice al cento per cento e avrò pensato al Chai e ai libri al massimo due volte (con Em nemmeno una!)…che poi non è vero che l’autunno mi convince a stare a casa tutto il tempo, perché c’è un momento, quando inizia a fare davvero freddo e le foglie sono già tutte rosse e se non sono già cadute sono a un soffio di vento dal farlo, c’è quel momento in cui io voglio uscire e vedere tutti gli alberi e magari avere anche un po’ di quella pioggerellina sottile e stupida che mi fa diventare i capelli tutti crespi. quello è di solito il momento in cui le persone troppo entusiaste circa il Natale iniziano a mettere le lucine fuori e quando passi in macchina le guardi e sei felice e vorresti averle tirate già fuori anche tu, ma ti limiti a sospirare e dire che è troppo presto.

ad ogni modo non sono ancora capace di rielaborare una spiegazione seria e sensata come quella della nonna, per cui mi limito a fare una lista di molti e troppi (e troppo stupidi) motivi per cui l’autunno è il massimo, che aggiornerò in questi ultimi giorni di autunno. in più voglio rilanciarvi la domanda: qual è la vostra stagione preferita e perché? come dice Fulminacci <Credimi più ci pensi più ti allontanerai/ credimi basta poco>.

C

ps. quando ho cominciato a riflettere su questa cosa delle stagioni ho fatto una lista di autori che hanno lavorato con questo tema. è ancora all’inizio, ma ogni contributo è ben accetto per ampliare la riflessione… la trovi qui

DAGUERRéOTYPES -di AGNèS VARDA, 1975

Già il titolo di questo lavoro è genuinamente geniale. E’ genuinamente geniale perché ‘dagherròtipo’ è un termine che indica un processo fotografico che riproduce un’immagine su un supporto in argento o rame argentato sensibilizzato, ma nel caso specifico di questo film allude anche alle persone che Agnès decide di ritrarre, i negozianti e abitanti di Rue Daguerre a Parigi.

C’è da chiedersi se l’abbia fatto di proposito, e no, è un caso, perché quella è la via in cui viveva e quello era il suo vicinato. Agnes qui è sì regista, ma più che altro attenta vicina. Una vicina che osserva con affetto le persone che tutti i giorni si alzano e aprono i loro piccoli negozi, per un lasso di tempo che trova il suo equilibrio tra più o meno sporadiche visite della clientela e momenti di quiete, se non addirittura solitudine, completa. Sarà proprio per questa solitudine che i commercianti della sua via sono tutti in coppia: mariti e mogli che condividono un mestiere e, di fatto, tutto il loro tempo.

Questo film è un monologo di Agnès Varda sulle persone che in qualche modo le piacciono. C’è l’anziana proprietaria de Le Chardon Blue, un po’ stanca e un po’ smemorata, e c’è una portinaia alle soglie della pensione che rivendica il suo ruolo di guardiana. Agnès un po’ si nasconde nei loro spazi, un po’ li mette in posa e li intervista con poche domande precise, poi monta tutto con estrema accuratezza (in ben quattro mesi!).

Mettendoli in posa, i negozianti diventano ritratti sospesi nel tempo, ma qualche piccolo dettaglio si muove, c’è l’accenno di un gesto e ci sono i respiri: sono dagherrotipi vivi!

Sono riprese che sanno di inverno, quando le strade sono bagnate e le persone si stringono nei cappotti perché tira un po’ di vento. Sanno anche di lacca di parrucchiera, quella vecchia lacca che si usava ancora quando eravamo piccole, e sanno di pane appena sfornato e di legno riverniciato. Gli ambienti sono così piccoli che rimaniamo quasi incastrati insieme ai clienti che comprano bottoni e rossetti, pagano bistecche e baguette, chiedono di aggiustare orologi e camicie. Ci ritroviamo in questi piccoli spazi commerciali, come se fosse anche il nostro quartiere, come se sbirciassimo anche noi cosa succede in strada mentre siamo in fila dal panettiere.

L’idea di Agnes è che i documentari siano tutti soggettivi, che non esista il cinéma-vérité. Questo non significa che il soggetto sia Agnès, ma che l’interpretazione sia soggettiva, cioè che questo sia un film di Varda sugli altri visti da lei. Il soggetto è la quotidianità di Rue Daguerre, a partire da Le Chardon Bleu, che aveva colpito la regista per le sue vetrine immutabili, in cui la troupe si intrufola seguendo la figlia della regista, che è una cliente affezionata dei due vecchietti proprietari.

Loro sono i primi e gli ultimi su cui la camera si sofferma, in un discreto lavoro di archiviazione quasi, verso cui è impossibile non fare un confronto con l’oggi. Si tratta di ritratti o forse di reportage o forse di omaggio, nemmeno Agnès ne è sicura, sta di fatto che i loro sguardi, i loro gesti, le loro parole, si sono conservati fino a noi, e ci ospitano tra loro, come se fossimo nati e cresciuti lì, in una sorta di piccolo villaggio dentro la città.

Sarei rimasta ore e ore a guardare queste persone, che solo poco prima non avevo mai visto e in quel momento mi apparivano così familiari. Ogni loro gesto era usuale e lento, il pane pesato e infornato, la carne scelta e tagliata, per me erano anche gesti pieni di una vita che non ho mai visto, che non esiste più.

Costanza

Questi ‘Daguerre-tipi’ colorati, queste immagini all’antica, il ritratto collettivo e quasi stereotipato di alcuni uomini e donne di Rue Daguerre, queste immagini e questi suoni ansiosi di rimanere discreti, di fronte al silenzio grigio che circonda la signora Chardon Bleu… formano tutti insieme un reportage? Un omaggio? Un saggio? Un rimpianto? Un rimprovero? Un approccio? A d’ogni modo è un film che io firmo come vicina: ‘Daguerre-tipa’ Agnès!

FONTI: ‘Alla scoperta di Agnès Varda in 5 film’ della cineteca di Bologna, che a sua volta ha come fonti l’intervista di Mireille Amiel in ‘Cinema 75’ n.204, dicembre 1975 + intervista di Andrée Tournès in ‘Jeune Cinéma’ n.140, febbraio 1982 + ‘Cicim’ n.4, febbraio 1983 +’Séquences’ n.126, ottobre 1986 + intervista di Colette Milon in ‘Cinémaction’ n.41, 1987 + ‘Varda par Agnès’, E’ditions Cahiers du cinéma, Parigi 1994 + Claude Manceron in ‘Télérama’ n1404, 8 dicembre 1976 + Francoise Audé in ‘Positif’ n.218, maggio 1979

definizione di un dagherròtipo https://treccani.it/enciclopedia/dagherrotipo/

venezia 78. titoli di coda

Non ho ancora realizzato il momento esatto, ma ad un certo punto è finito tutto. Forse è accaduto sul vaporetto per andare in stazione, forse mentre mettevo i vestiti in valigia o forse addirittura già dopo l’ultimo film… ad ogni modo è finito. Le persone hanno cominciato ad andarsene, a svuotare i posti che fino a poche ore prima pululavano di voci, e gli schermi si sono spenti.

Una parte di me vorrebbe che la Mostra durasse un anno intero, anzi, perché dire una parte soltanto? Ogni parte di me vorrebbe vedere cinque film al giorno. Un giorno di aprile l’avevo fatto, ma al Lido era la normalità (tra l’altro, per la cronaca, ad aprile avevo guardato: Tomboy, Vagabond, La boum, Le meraviglie, La boum 2, Racconto d’autunno… per me è un gruppo fortissimo, quindi ci tenevo a dirvelo).

Ero stata al Lido solo due volte, ma avevo visto il Lido-spiaggia, quindi era come non esserci mai stata. Durante la Mostra la spiaggia l’ho vista solo una volta, per il resto ho girovagato in un posto nuovo e ho scoperto tantissimi angoli meritevoli… uno su tutti: quello che ospita un bus inglese a due piani che è stato convertito in una sorta di food truck, dove fanno panini buonissimi (penso di poter parlare anche a nome di Em dicendo che era il nostro posto preferito per cenare).

Forse senza la Mostra il Lido mi sarebbe piaciuto in modo generico, come ti piacciono quei posti di mare per le vacanze con l’aria salata e la sabbia sui marciapiedi, invece la combo cinema + mare di sottofondo, appena visibile oltre il muro di cinta, mi ha conquistata. Non si può dire che sappia di Venezia, perché da fuorisede che studia in laguna posso dire che in dieci giorni al Lido non c’era il numero di gabbiani e di canali sufficiente per poter dire che ero Venezia, ma capisco che agli attori facciano fare il giro in motoscafo e quello basti per farli sentire Katharine Hepburn in Tempo d’Estate.

Quando prima di partire volevo riscrivere l’articolo ‘What’s so special about the Venice Film Festival’ mi immaginavo un’esperienze diversa, forse con meno film, anzi decisamente con meno film. Ora che sono tornata e sono seduta sullo stesso divano su cui ho scritto delle mie aspettative, mi rendo conto che avevo un’idea vaga, rispetto al cuore della faccenda: i film.

Invece i film erano proprio il punto… i film e le persone. I giorni passavano e non si può dire che io abbia conosciuto tantissime persone, ma la loro semplice presenza, il loro semplice parlottare in fila davanti a una sala, mi faceva sentire nel posto giusto. I film erano bellissimi, davvero, quelli che non mi hanno convinta per niente si possono contare sulle dita di una mano… una selezione splendida. In più c’era tutto questo gruppo di persone che proiettavano con me la loro mente allo schermo, alla storia. Ogni tanto mi giravo nella semioscurità della sala (come Amelie!) e li guardavo mentre guardavano e mi rivedevo nelle loro posizioni, nelle loro espressioni e pensavo che eravamo un gruppo di affini. Magari non lo eravamo, però con i volti illuminati solo dalle immagini dello schermo mi sembrava di sì.

C

venezia 78. riepilogo prima settimana

Io ed Em abbiamo già perso la concezione del tempo ed è due notti che non sogno più, perché è come se sognassi per diverse ore ogni giorno. Le nostre menti rielaborano così tanti contenuti, che siamo in continuo fermento e spesso, mentre siamo in coda per un film, analizziamo gli ultimi visti saltando in modo scomposto dall’uno all’altro.

I nostri quaderni sono pieni di appunti e orari a cui dobbiamo vedere questo o quello; mentre noi talvolta ci separiamo e talvolta ci ritroviamo intorno al palazzo del casinò, sul prato o vicino al red carpet. Il tutto è molto elettrizzante ad essere sincera: potrei vivere così ogni singolo giorno che mi resta nella vita.

Sento che la mia mente in un certo senso sta sfamando tutto il mio corpo, riempiendolo di immagini e parole (e talvolta lacrime), sia metaforicamente sia letteralmente… o almeno mi è piaciuto pensarlo ieri a cena quando mi sono imposta di mangiare del couscous, anche se non avevo fame, giusto perché non avevo mangiato nulla dalla mattina.

La domanda che mi fanno tutti è che attori ho visto, quindi fatemi dire che mentre uscivo da una sala dietro al red carpet c’era Timotheé Chalamet che correva verso un’orda di fan urlanti e fatemi aggiungere che ci sono rimasta male per Zendaya, che è rimasta in coda al cast di Dune, mentre tutti urlavano solo il nome del protagonista (how dare you!).

Em probabilmente vi direbbe anche Oscar Isaac, perché in questi giorni era prezzemolo. Più che gli attori però, mi interessano i film e soprattutto i registi, con cui talvolta abbiamo occasione di parlare, perché sono loro che ci danno gli spunti più interessanti su cui riflettere. Per esempio proprio l’altro ieri ho avuto una bellissima conversazione sulla spiritualità con il regista di ‘Karmalink’, Jake Wachtel, che si era appostato fuori dalla sale dove ridavano il suo film per sentire le opinioni di chi l’aveva appena visto (film pazzesco tra parentesi).

Le nostre giornate sono ore di film e altre ore di noi che parliamo di film. Li analizziamo minuziosamente: un personaggio alla volta, una sequenza alla volta. Per ora il nostro preferito è ‘The power of the dog’ di Jane Campion, ma rimando a più tardi una spiegazione approfondita del perchè… potrebbe volerci un bel po’ a stenderla.

A stamattina i film visti sono 28, di cui 10 cortometraggi (specifico per rassicurarvi) e se volete anche voi fare un po’ finta di essere al Lido con noi potete sempre andare al cinema a vedere ‘Mondocane’ con Alessandro Borghi (visto ieri, merita tanto).

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aspettando Venezia 78

COS’HA DI COSI’ SPECIALE LA MOSTRA INTERNAZIONALE DI ARTE CINEMATOGRAFICA DI VENEZIA?

Alcuni anni fa il New York Times in un articolo si chiedeva ‘What’s so special about the Venice Film Festival?’ (here) ed arrivava alle seguenti conclusioni: bella location, generale clima di low stress, il fatto che fosse facile vedere gente famosa qua e là o ancora più facile sbagliare sala e vedere un altro film rispetto a quello che si voleva.

Pur non essendoci mai stata prima, mi sono sempre figurata questo evento come un festival cinematografico con qualcosa in più degli altri. Non posso ancora fare confronti con Cannes o la Berlinale (purtroppo!), ma è fuori discussione che a Venezia arrivino molti dei lavori più attesi e più interessanti della stagione.

Negli ultimi anni sono passati dal Lido film come Lalaland, La forma dell’acqua, A star is born e Joker, giusto per fare alcuni esempi, che sono andati decisamente bene nella stagione cinematografica successiva, nonché agli Oscar, se vogliamo dirlo.

Anche quest’anno in concorso ufficiale ci sono dei titoli promettenti firmati da nomi del calibro di Almodovar e Sorrentino. Mentre fuori concorso sono attesissimi ‘Dune’ di Denis Villeneuve, ‘Last night in Soho’ di Edgar Wright, ‘The last duel’ di Ridley Scott e la nuova serie HBO dal titolo ‘Scenes from a marriage’ con Oscar Isaac e Jessica Chastain.

Finalmente quest’anno non seguirò da casa, ma sarò là per tutta la durata del Festival e potrò capire in prima persona cos’ha di così speciale. Del resto da un mese a questa parte non faccio altro che pensare a quando sarò lì e correrò da una sala all’altra per vedere più film possibili e tra le altre cose ho deciso che riscriverò quell’articolo a modo mio. Stay tuned. Buoni ultimi giorni d’estate intanto.

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Per la mia lista su Letterboxd con tutti i film della Mostra clicca qui.

I have so many interests in different things. I'm sure it's exhausting, but I'm just doing me!